Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

sabato 7 dicembre 2013

Verso l'homo tecnologicus dell'età ibrida?



* Questa recensione è già apparsa sul sito dell'Associazione Globus et Locus 

Molto spesso la fantascienza è stata considerata soltanto come un modo frivolo di fuggire dalla realtà, attraverso la costruzione di un qualche immaginifico e visionario futuro. Assai meno frequentemente è stata riconosciuta la capacità critica di alcuni grandi autori di questo genere letterario di indagare le trasformazioni in atto nel sistema internazionale. Sotto la scorza più superficiale nella narrativa, infatti, vari racconti utopici o distopici contengono profondi giudizi – non di rado abilmente celati – su politica, economia, società e storia.
Nelle pagine del recente L’età ibrida. Il potere della tecnologia nella competizione globale (Codice edizioni, Torino 2013, pp. 115, euro 11,90), Ayesha e Parag Khanna offrono al lettore una serie di scenari possibili dell’incombente domani, senza tuttavia ricorrere alla ‘finzione’ del romanzo. Riprendendo l’esperienza di un’altra famosa coppia di coniugi, i futurologi Alvin e Heidi Toffler, i due autori riflettono sull’incessante evoluzione della Technik e sulla sua sempre più dirompente ibridazione con l’esistenza dell’uomo. Il rapporto tra l’avanzamento della tecnologia e la vita umana, che si fa sempre più liminare, sembra essere destinato a trasformare radicalmente e irrimediabilmente il destino della singola persona e quello delle comunità politiche organizzate.
L’«età ibrida», osservano i coniugi Khanna, è «una nuova epoca sociotecnologica che emerge mano a mano che le tecnologie si fondono tra di loro e gli esseri umani con queste» (p. 6). Un’epoca nella quale «il nostro rapporto con la tecnologia sta oltrepassando il livello puramente strumentale per entrare nella sfera esistenziale»: ossia un’epoca dove «la natura umana cessa di essere una verità distinta e immutabile» e «la tecnologia è diventata pervasiva come l’aria che respiriamo» (p. 8, 14).
Accanto a una grande quantità di esempi concreti di come l’innovazione tecnologica modifica (o sta inesorabilmente per modificare) innumerevoli campi della realtà, gli autori hanno l’indiscusso merito di mantenere una posizione speculativa che rimane ancorata ai mutamenti (magari, ancora sotterranei) in corso nel mondo glocale. Particolarmente suggestive sono le riflessioni sui nuovi assetti geotecnologici, che andranno (forse) a sostituire quelli geopolitici e geoeconomici nella competizione per la supremazia internazionale, oltre che la sempre più forte tendenza – ben descritta anche da Charles A. Kupchan e Moisés Naín – alla diffusione ed erosione del potere degli Stati. Istituzioni, queste ultime, che – secondo gli autori de L’età ibrida – andranno ad essere nel lungo periodo soppiantate da imponenti smart cities, megalopoli e città-stato, in un ritorno non tanto e non solo al Medioevo, ma quanto e soprattutto al mondo delle polis della Grecia classica.


Ma l’influsso della tecnica sulla vita dell’uomo non viene analizzato soltanto nei confronti delle dinamiche politiche. Ayesha e Parag Khanna ne sottolineano anche l’impatto ‘generativo’ sulle transizioni finanziarie e sulla produzione economica, su sistemi sanitari, educativi e di welfare che, nella loro dimensione statale, risultano già oggi insostenibili.
Di fronte alla possibilità che si tratteggino all’orizzonte scenari persino apocalittici, gli autori di questo agile libretto riprendono – senza, ovviamente, la precisione filosofica – il solco della riflessione intorno alla tecnica che ha segnato l’inizio e la metà del Novecento. Ma intersecano anche gran parte dell’odierno dibattito relativo ad alcune questioni centrali della biopolitica. «Siamo pronti» – affermano, infatti, i Khanna – «a gettarci su qualunque tecnologia riteniamo arricchisca, prolunghi o faciliti la nostra vita, ma raramente leggiamo la scritta in corpo minore che ci dice cosa dobbiamo dare in cambio» (p. 98). Per molti versi, quindi, al termine della lettura de L’età ibrida – che guarda, con un misto di speranza e ansietà, a ciò che di odierno c’è nel domani – torna alla mente l’esortazione che Albert Camus fa pronunciare al dottor Rieux nel celebre dialogo con Tarrou, contenuto in La peste del 1947: «essere un uomo, questo mi interessa». E ciò vale ancora di più nei confronti dell’incipiente avanzare della tecnica.

martedì 16 aprile 2013

Quello che Renzi non dice. Nella lettera a Repubblica qualche "mancata verità"


Nel 1987, Fiorella Mannoia vinse il Premio della Critica a Sanremo con Quello che le donne non dicono. Scritta da Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone, la canzone riscosse un certo successo, rimanendo per molte settimane nella classifica musicale degli singoli. Sul palco dell’Ariston, la cantautrice romana ricordava che se le donne dicono «una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà», proprio perché se si trasformano un po’ «è per la voglia di piacere a chi c’è già o potrà arrivare a stare con noi». Apparsa per la prima volta nell’album Canzoni per parlare, la bella canzone della Mannoia è paradossalmente attuale oggi alla vigilia dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica in questa pericolosa fase politica che sta attraversando il nostro Paese.
            In una lettera a Repubblica, entrando ancora di più nella mischia per il Quirinale, Matteo Renzi una qualche «mancata verità» per «la voglia di piacere a chi già c’è o potrà arrivare» ad ‘allearsi’ con lui non esita a scriverla. Nel far ciò, non solo evidenzia le tensioni (quando non vere e proprie divisioni) del Pd, ma si sofferma sul rapporto tra fede e politica. Al centro della missiva a Ezio Mauro (nella quale si scaglia legittimamente contro la candidatura di Marini, ma tace il suo appoggio a Prodi), Renzi costruisce abilmente una retorica – ma non molto convincente – difesa della laicità dello Stato. Un tentativo un po’ maldestro, anche se (a prima vista) abbastanza efficace, di fare eco alla lettera che don Julián Carrón ha scritto il 10 aprile scorso sempre a Repubblica. Accanto a un’analisi di ciò a cui il sindaco di Firenze accenna, è allora interessante capire proprio quello che il ‘rottamatore’ non dice.
            Ha ragione Renzi quando afferma di dubitare «di chi riduce il cristianesimo a insieme di precetti, norme etiche alle quali cercare di obbedire e che il buon cristiano dovrebbe difendere dalle insidie della contemporaneità», oppure di ritenere molto più infimo chi «utilizza la propria fede per chiedere posti. Per pretendere posti. Per reclamare posti non in virtù delle proprie idee, ma della propria fede». Anche se, questo atteggiamento «perdente» non è poi così frequente – come, invece, ritiene Renzi – nel mondo politico cattolico. Il cristianesimo non è la ricerca di un’egemonia politica, ma la testimonianza di una presenza. Ed è proprio a questo livello che l’astuto ragionamento del rottamatore inizia a incrinarsi.
Definendo un po’ furbescamente «gravissimo e strumentale» il fatto di poggiare una candidatura sulla fede religiosa, Renzi afferma con «orgoglio» il suo essere cattolico. Tuttavia, il tentativo «di vivere la fedeltà al messaggio e ai valori di Cristo […] davanti alla coscienza» somiglia vagamente e pericolosamente alla fiera rivendicazione di autonomia in cui avventurò qualche anno fa il “cattolico adulto” Prodi. La fede è qualcosa di personale e privato (tanto che il sindaco di Firenze è costretto a fare «outing»), ma non può in alcun modo incidere sulla vita sociale, politica ed economica. Una rivendicazione che già Benedetto XVI, durante i vespri in occasione della chiusura dell’anno paolino, sgretolò con fermezza.
«La parola “fede adulta”», osservava Papa Ratzinger nel giugno del 2009, «negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa». «In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. È la fede che egli vuole. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo». La “fede adulta” autentica, infatti, «si oppone ai venti della moda», proprio perché «non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente». Così, ribadiva con forza Benedetto XVI «fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo». Piuttosto che offrire lezioni sul rapporto tra fede e politica, cercando al tempo stesso di nascondere l’opportunismo politico di demolire una candidatura al Quirinale, sarebbe utile capire che cosa pensa il Sindaco di Firenze a proposito dei principi non negoziabili. Se di fronte alla vita, all’educazione e alla famiglia ritiene che la fede sia qualcosa di privato, oppure un fattore decisivo per portare un contributo al bene comune. Se la fede possa diventare intelligenza della realtà, oppure sia preferibile un comodo dualismo da “cattolico adulto”, la cui fede non si oppone ai venti della moda e si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. 

* Questa lettera è già stata pubblicata su www.ilsussidiario.net il 15 aprile 2013


venerdì 5 aprile 2013


«Ora andrò lontano su al Nord, a giocare al Grande gioco». Nel romanzo Kim del 1901, lo scrittore britannico Rudyard Kipling racconta la storia di un giovane tredicenne che nell'India coloniale del XIX secolo si barcamena tra intrighi e spie. Lo sfondo delle avventure di Kim è l'intricato scontro di potere tra servizi segreti inglesi e russi per il controllo dell'Asia Centrale. Il piccolo orfano si trova invischiato in quello che un ufficiale dell'esercito britannico, Arthur Connolly, morto tragicamente a Bukhara qualche anno dopo, definì come il «Grande gioco» (reso celebre dall'omonimo romanzo storico di Peter Hopkirk). 
Seppur il quadrante geopolitico e le condizioni storiche siano anche profondamente cambiate, il trentenne Supremo Leader della Corea del Nord è impegnato in questi giorni in una serie di forti provocazioni nei confronti della comunità internazionale. Kim Yong Un ha iniziato il suo «Grande gioco». Nel quale sembra davvero divertirsi, a differenza delle principali potenze internazionali. Non solo Stati UnitiGiappone Corea del Sud mostrano preoccupazione per una tale situazione, ma anche Cina Russia iniziano a mostrare non pochi malumori verso il giovane dittatore nordcoreano.

Molto probabilmente, gli allarmi e le bellicose dichiarazioni rientreranno appena Kim Yong Un sarà riuscito a rafforzare la propria autorità all'interno del regime, in particolare di fronte alle alte gerarchie dell'esercito. La dittatura comunista, infatti, rischierebbe soltanto di crollare in brevissimo tempo, qualora dovesse insorgere un casus belli che determini un attacco di risposta da parte giapponese o americana. Certo è, però, che l'imprevedibile - ma, non per questo, meno razionale - comportamento di Kim Yong Un potrebbe determinare una pericolosa escalation. Un'escalation preoccupante proprio perchè, riproponendo dinamiche internazionali che già si erano vissute in Asia Centrale nell'Ottocento, potrebbe destabilizzare un sub sistema regionale tanto cruciale, quanto già segnato da forti tensioni e rivalità. 
Il «Grande gioco» raccontato da Kipling e Hopkirk non è frutto di immaginazione letteraria. Proprio come quello a cui sta giocando il dittatore nordcoreano. Ma, sinceramente, non è desiderabile che il nuovo Kim diventi protagonista di qualche futuro romanzo storico o d'avventura. 
* Questo post è già apparso su Linkiesta il 4 aprile 2013.  




I «novanta minuti più belli» della Juventus. Dopo Chamberlain, arriverà il turno di Churchill?




Historia magistra vitae. È sì, è proprio vero. Più di settant’anni dopo. I ‘fantasmi’ della Conferenza di Monaco sono riapparsi all’orizzonte. È cambiata la stagione. Da un precoce autunno si è passati a una stentata primavera. Ma il senso della capitolazione, dell’appeasement di fronte a un nemico cinico e spietato è rimasto quello degli ultimi giorni del settembre 1938. Anche i protagonisti del dramma storico non sono cambiati. La Juventus ha vestito alla perfezione i panni di un incerto e sentimentale Neville Chamberlain, mentre il Bayern Monaco quelli di un cinico e pragmatico Adolf Hitler.

Ieri sera, alla Allianz Arena le due squadre hanno così risolto il dilemma che alla vigilia della partita attanagliava i lettori di Contropiede. Avrà ragione Andrea Rossetti oppure Alberto Coghi? Al di là delle (più o meno corrette) analisi o speranze, è stato il campo a premiare le riflessioni del primo rispetto al secondo. La squadra di Heynckes ha strapazzato quella di Conte. I bianconeri, colpiti a freddo su un ‘fortunoso’ tiro di Alaba, hanno dovuto inseguire tutta la partita arrancando di fronte alla forza fisica, tattica e mentale nettamente superiore dei bavaresi. A parte il gladiatorio Vidal, che è stato l’unico a offrire una prestazione degna di un quarto di finale di Champions League, i campioni d’Italia – a partire dal suo capitano, un insolitamente assai imperfetto Buffon – sono stati dominati dai panzer tedeschi.




Continuare nella descrizione di una disfatta (perché di questo si tratta, non bisogna mentire a se stessi), risulterebbe inutile. Forse, addirittura nocivo. Il colpo incassato nel freddo pungente della Baviera potrebbe avere ripercussioni anche sulle future prestazioni in Seria A. Fortunatamente, la Vecchia Signora ha ormai acquisito un margine abbastanza solido rispetto alle inseguitrici che sembra poter rassicurare l’ambiente bianconero. Ciò che importa, infatti, è altro. Nella storia, e pertanto anche nello sport, non esistono leggi universali prestabilite e inviolabili. La libertà umana ha mostrato, mostra e continuerà a mostrare una formidabile capacità di stupire.

L’andata di Champions League potrebbe pertanto rivelarsi un qualcosa in più di un completo fiasco. Così come la controversa scelta di Chamberlain permise alla Gran Bretagna di iniziare un processo di riorganizzazione delle sue forze armate, anche la lezione di calcio di Monaco subita dalla Juventus potrebbe rivelarsi utile al fine di contrastare efficacemente il Bayern durante la partita di ritorno. Molti commentatori, continuano ad affermare che il valore aggiunto dei bianconeri risiede in Antonio Conte. Questa suggestione, molto probabilmente, è ragionevole. L’allenatore pugliese, infatti, è (quasi) sempre riuscito a ottenere ben più del massimo dai propri giocatori. Non è detto che non vi riesca quasi miracolosamente anche il 10 aprile allo Juventus Stadium.



Ancora una volta, come insegna quella ‘maestra di vita’ che è la storia, a un assai troppo prudente Chamberlain potrebbe subentrare un arcigno e combattivo Winston Churchill, in grado di rinvigorire una squadra ancora con una dimensione prettamente nazionale e non pienamente europea. Anche se è quantomeno dubbia, proprio allo statista britannico è stata attribuita una frase che rappresenta una metafora della speranza che risiede nel cuore di ogni calciatore e di ogni tifoso bianconero: «mi piacciono gli italiani, vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra». A Torino sarà questo il livello della sfida. E, forse, ancora una volta risuonerà l’eco delle parole che Churchill pronunciò in un famoso discorso tenuto alla Camera dei Comuni il 18 giugno 1940. Negli spogliatoi, Conte dovrà spronare i suoi giocatori a stringersi al loro dovere e a comportarsi in modo che se il dominio della Juventus in campionato dovesse durare per un migliaio d’anni gli uomini (anche e soprattutto quelli di altre fedi calcistiche) diranno ancora: «questi furono i loro novanta minuti più belli». 

* Questo articolo è già apparso su Contropiede.net

sabato 30 marzo 2013

Enzo Jannacci e la «carezza del Nazareno»


Con l'ironia che ne ha contraddistinto cinquant'anni di carriera, Enzo Jannacci se n'è andato misteriosamente proprio il Venerdì Santo. Nel momento della morte di Gesù di Nazareth. Il 6 febbraio 2009, intervistato dal Corriere della Sera, il grande cantautore milanese si soffermò sul caso di Eluana Englaro. A un certo punto, Jannacci non ebbe vergogna ad affermare con forza:
«In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».
Già, perchè Jannacci - come avrebbe rivelato in un'intervista ad Avvenire il 26 agosto del 2009 - non è mai stato ateo. La sua ricerca religiosa, infatti, era sempre andata avanti negli anni. In Paradiso, molto probabilmente, Jannacci starà ridendo con gusto, proprio perchè quella «carezza del Nazareno» è arrivata. Arrivederci Enzo! 
Questo post è stato pubblicato su Linkiesta il 30 marzo 2013.


I figli di NN, Beppe Grillo e Antonio Polito



Dopo le consultazioni (e il prevedibile "no" a Bersani), Beppe Grillo è tornato ad attaccare la classe politica dal proprio blog. Lo ha fatto con un post intitolato I figli di NN nel quale afferma che le «nuove generazioni sono senza padri», figlie di «vecchi puttanieri che si sono giocati ogni possibile lascito testamentario indebitando gli eredi». L'inizio della Seconda Repubblica aveva illuso molti. Il terrore robespierrano di Tangentoli non è servito. L'Italia - e in ciò ha ragione il comico genovese - è un Paese in cui la totalità del ceto politico ha tessuto e disfatto per l'intera Seconda Repubblica una Tela di Penelope rimasta incompiuta.
Nel suo Contro i papà, anche Antonio Polito denuncia i padri. Ma l'editorialista del Corriere non si limita - come Grillo - a un demagogico e populista «vi manderanno a casa». Anzi, con un'analisi profonda, offre una speranza per il presente e il futuro. Come si evince dalla presentazione del volume tenuta a Milano qualche mese fa:




Beppe Grillo e Antonio Polito. Un problema simile, due soluzioni sensibilmente diverse. Da una parte il "vaffa", dall'altra l'educazione. I figli di NN - che, comunque, sono sempre 'nostri' figli - hanno bisogno di ribellione (ossia un altro '68 da tradire) o di una speranza?
* Questo post è già stato pubblicato su Linkiesta il 27 marzo 2013.  

L'ennesima giravolta di Terzi: il Ministro si dimette, senza ammettere i propri errori



Il Ministro degli Esteri ha annunciato le proprie dimissioni. Contrariamente a quanto affermato venerdì scorso nell'intervista a RepubblicaGiulio Terzi di Sant'Agata ha compiuto l'ennesima 'giravolta'
«Mi dimetto», ha affermato durante l'audizione alla Camera, «in disaccordo con la decisione di rimandare i marò in India», dal momento che «le riserve da me espresse non hanno prodotto alcun effetto e la decisione è stata un’altra». «Mi dimetto», ha insistito, «perché solidale in modo completo con i nostri marò e con le loro famiglie». «Ho atteso fino a oggi per dimettermi», ha pertanto spiegato, «perché volevo venire qui in Parlamento come sede della sovranità» popolare. Insomma, quella dell'ex Ambasciatore negli Stati Uniti sarebbe una voce 'saggia', ma colpevolmente «inascoltata».   
Assai differenti - e, proprio per tale motivo, interessanti - le dichiarazioni del Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il quale ha ribadito con forza: «non abbandonerò la nave in difficoltà. Sarebbe facile dimettermi ora, ma non lo farò». Aggiungendo, non senza una vena polemica, che «le valutazioni di Terzi» sulla vicenda dei marò «non sono quelle del governo». 
Purtroppo, le parole diametralmente opposte di Terzi e di Di Paola dimostrano la lungimiranza delle osservazioni che Massimiliano Latorre aveva affidato a una mail indirizzata all'amico Toni Capuozzo. Il fuciliere della marina, infatti, aveva osservato come non era il momento delle divisioni o dello scaricabarile delle responsabilità. Piuttosto, la 'tragedia' che vede coinvolto ancora lui e Salvatore Girone rende urgente e necessaria l'unità delle istituzioni e della classe politica.
Con questa sua ennesima 'giravolta', che sembra avere come obiettivo primario il desiderio di rifarsi una personale verginità diplomatica (ormai, tuttavia, irrimediabilmente perduta), Terzi mette in mostra i suoi contrasti mai sopiti con Mario Monti. E' al governo e non al Ministro degli Esteri - sembra suggerire Terzi, non proprio tra le righe - che va addossata la colpa del rientro dei marò in India. Tentando - con onestà o, forse, con un estremo atto di opportunismo politico - di mettersi dalla parte dei marò, Terzi non ha di fatto ammesso le proprie colpe nella 'dilettantesca' gestione che sin dall'inizio ha accompagnato la vicenda.  
Mentre Massimiliano e Salvatore sono in India a testimoniare con forza l'onore e la dignità  del nostro Paese, Terzi sembra aver perso una buona opportunità per compiere un atto di umiltà e di responsabilità. L'atto delle dimissioni, infatti, era più che dovuto e motivato. Francamente, proprio per rispetto a Latorre e Girone, era auspicabile che in Parlamento non si dovesse assistire all'ennesimo giro di valzer.     


* Questo post è già stato pubblicato su Linkiesta il 26 marzo 2013. 

Marò: «Tutti insieme nessuno indietro»



La politica è ancora una volta divisa. Divisa su tutto. Le fibrillazioni e il malcontento delle segreterie dei partiti sembrano avere come unico orizzonte quello di una assai difficile formazione del prossimo governo. I 'capibastone' si attaccano l'un l'altro.
Dall'altra parte del mondo, intanto, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono gli unici a rappresentare l'onore e la dignità italiana. Il ceto politico del nostro Paese si rimbalza accuse. E, al tempo stesso, trova alibì. Il nostro 'dilettantesco' Ministro degli Esteri riferirà alle Camere della vergognosa gestione della controversia con l'India. E, in un certo senso, ciò sembra bastare.
Invece, Latorre ha scritto una mail a Toni Capuozzo, conduttore di Terra!:   
Caro Toni non ci serve ora sapere di chi sia stata la colpa, perché non ci porta a nulla e tanto meno non porta a nulla che le forze politiche si rimbalzino le responsabilità. Quel che vi chiediamo ora è non divisione ma, come i nostri fucilieri, mettetevi a braccetto, unite le forze e risolvete questa tragedia. Come dicono i fucilieri: tutti insieme nessuno indietro. Siamo italiani dimostriamolo, come hanno fatto loro
Nell'appello di Latorre - ancora una volta, l'Italia deve imparare - non solo è contenuta la giusta preoccupazione dei due fucilieri per una situazione la cui soluzione appare ancora lontana, ma anche e soprattutto traspare un monito - in piena sintonia con quello di Napolitano - per l'intera politica italiana. Anzi, per l'intero Paese, che speriamo riporti a casa i nostri due ragazzi: «Tutti insieme nessuno indietro»!



* Questo post è già stato pubblicato su Linkiesta il 25 marzo 2013. 

La politica estera di Papa Francesco


«La politica estera è la faccia che una nazione presenta al mondo». Così, in forma sintetica ed efficace lo storico americano Arthur M. Schlesinger Jr. esprime l’importanza cruciale della proiezione che uno Stato offre di se stesso verso l’esterno. La faccia con cui il Vaticano si è presentato storicamente sulla scena internazionale ha mantenuto sempre una forte continuità, oltre che una predisposizione verso un sano realismo (egualmente distante tanto dal cinismo, quanto dal sentimentalismo).
Ricevendo in udienza il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Francesco ha avuto la possibilità di sottolineare le linee di politica estera che segneranno il suo pontificato. Per far ciò, è ritornato ancora una volta alle ragioni più profonde che stanno dietro la scelta di prendere il nome del Poverello di Assisi.
La prima ragione è l’amore per i poveri. Seguendo l’esempio di San Francesco, ha osservato il Santo Padre, «la Chiesa ha sempre cercato di avere cura, di custodire, in ogni angolo della Terra, chi soffre per l’indigenza e penso che in molti dei vostri Paesi possiate constatare la generosa opera di quei cristiani che si adoperano per aiutare i malati, gli orfani, i senzatetto e tutti coloro che sono emarginati, e che così lavorano per edificare società più umane e più giuste». Ma, accanto a questa povertà materiale, Papa Francesco ha tenuto con forza a ribadire – allontanando, ancora una volta, il fantasma di un pauperismo di maniera, che in molti cercano di cucirgli addosso – anche il più sottile problema della povertà spirituale. Quest’ultimo tipo di povertà, infatti, «riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi». «È quanto il mio Predecessore, il caro e venerato Benedetto XVI», ha sottolineato Papa Francesco, mostrando la decisa continuità con Joseph Ratzinger, «chiama la “dittatura del relativismo”, che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini».


La seconda ragione, strettamente legata al problema dell’autoreferenzialità umana che sorge dalla dittatura del relativismo, è il bisogno di «edificare la pace». Infatti, ha ribadito Papa Bergoglio, «non vi è vera pace senza verità», ossia «non vi può essere pace vera se ciascuno è la misura di se stesso, se ciascuno può rivendicare sempre e solo il proprio diritto, senza curarsi allo stesso tempo del bene degli altri, di tutti, a partire dalla natura che accomuna ogni essere umano su questa terra». 
Il Santo Padre ha voluto sottolineare come sia necessario superare una tale impasse. E, lo ha fatto, ricordando uno dei titoli – forse, il più famoso e utilizzato – che connotano il Vescovo di Roma: Pontefice. Il termine, infatti, identifica «colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini». Proprio in questa duplice prospettiva di edificazione della pace, il Papa argentino ha richiamato – in sintonia sia con Giovanni Paolo II, sia con Benedetto XVI – il ruolo centrale che rivestono le religioni. Se, infatti, non si possono «costruire ponti tra gli uomini, dimenticando Dio», non è neppure possibile «vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri». Papa Francesco ha così tracciato due strade. Da un lato, egli ha espresso la necessità importante di intensificare il dialogo fra le religioni, in particolare con l’Islam. Dall’altro, contemporaneamente, ha riproposto il bisogno di rinvigorire il confronto con i non credenti.
Ma, il riferimento a San Francesco non poteva ignorare un richiamo finale anche a un «profondo rispetto per tutto il creato». L’invito a ‘custodire’ – un verbo molto caro al Papa, come si è visto nella bella e semplice omelia d’inizio pontificato – l’ambiente non mostra una mera e fuorviante dimensione ecologista. Piuttosto, rappresenta nuovamente un richiamo – per dirla con Sant’Agostino – alla pace come Tranquillitas ordinis. Infatti, quando l’ambiente – sottolinea il Santo Padre – non è usato bene, viene sfruttato a danno l’uno dell’altro.
In modo semplice e diretto, Papa Francesco ha tratteggiato il volto che la Santa Sede intende mostrare al mondo. Un volto dialogante, ma fermo sui principi. Un volto sempre nuovo, seppur nella piena continuità con il magistero dei pontefici precedenti. Un volto di speranza verso una famiglia umana che deve vivere nell’età del Leviatano.
* Questo post è già stato pubblicato su Linkiesta il 23 marzo 2013.




lunedì 18 marzo 2013

Il ‘falso’ San Francesco di Grillo non è quello di Papa Bergoglio




Papa Francesco sembra conquistare immediatamente le persone. Sorridente, umile, informale, familiare, diretto. Ieri, persino Beppe Grillo ha reso omaggio al nuovo Pontefice. Nel suo blog è apparso un post, intitolato "L'importanza di chiamarsi Francesco". «Nessun Papa», osserva il comico genovese, «ha mai avuto il coraggio, perché di vero coraggio si tratta, di chiamarsi Francesco». Citando il libro Il Grillo canta sempre al tramonto, scritto a sei mani con Gianroberto Casaleggio e Dario Fo, egli aggiunge (quasi profeticamente):
Non deve essere un caso che non esista un papa che si sia fatto chiamare Francesco. Noi abbiamo scelto appositamente la data di San Francesco per la creazione del MoVimento. Politica senza soldi. Rispetto degli animali e dell’ambiente. Siamo i pazzi della democrazia, forse molti non ci capiscono proprio per questo e continuano a chiedersi chi c’è dietro.
Habemus Papam, afferma fiero il comico genovese. «Per il momento il suo nome ci rallegra», coclude, «speriamo che ci rallegrino presto anche le sue opere». Ma, diversamente da quello che pensa Grillo, non è un problema di opere (che, certamente, arriveranno). Nella scelta del cardinale Bergoglio, infatti, c'è qualcosa che viene prima. Ed è imprescindibile dalla decisione di portare il nome del Santo di Assisi.
E' stato il Santo Padre ha spiegarlo bene, proprio nei suoi primi interventi pubblici. Ma sono passaggi a cui solitamente - sia la stampa, sia coloro che (esattamente come Grillo) vorrebbero ridurre la Chiesa a un'agenzia umanitaria - non viene dato alcun risalto. Anzi, sono volutamente taciuti.

Questo qualcosa che viene prima è la «pietra angolare» su cui è edificata la Chiesa, ossia Cristo. Nell'omelia, pronunciata a braccio giovedì 14 marzo nella Cappella Sistina, di fronte ai cardinali elettori, Papa Francesco ha affermato con forza: «Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore». Sabato, nell'incontro con gli operatori dei media, in Aula Paolo VI, il Pontefice sempre con fermezza ha ribadito:
Un ringraziamento particolarmente sentito va a quanti hanno saputo osservare e presentare questi eventi della storia della Chiesa tenendo conto della prospettiva più giusta in cui devono essere letti, quella della fede. Gli avvenimenti della storia chiedono quasi sempre una lettura complessa, che a volte può anche comprendere la dimensione della fede. Gli eventi ecclesiali non sono certamente più complicati di quelli politici o economici! Essi però hanno una caratteristica di fondo particolare: rispondono a una logica che non è principalmente quella delle categorie, per così dire, mondane, e proprio per questo non è facile interpretarli e comunicarli ad un pubblico vasto e variegato. La Chiesa, infatti, pur essendo certamente anche un’istituzione umana, storica, con tutto quello che comporta, non ha una natura politica, ma essenzialmente spirituale: è il Popolo di Dio, il Santo Popolo di Dio, che cammina verso l’incontro con Gesù Cristo. Soltanto ponendosi in questa prospettiva si può rendere pienamente ragione di quanto la Chiesa Cattolica opera.
Cristo è il Pastore della Chiesa, ma la sua presenza nella storia passa attraverso la libertà degli uomini: tra di essi uno viene scelto per servire come suo Vicario, Successore dell’Apostolo Pietro, ma Cristo è il centro, non il Successore di Pietro: Cristo. Cristo è il centro. Cristo è il riferimento fondamentale, il cuore della Chiesa. Senza di Lui, Pietro e la Chiesa non esisterebbero né avrebbero ragion d’essere. Come ha ripetuto più volte Benedetto XVI, Cristo è presente e guida la sua Chiesa. In tutto quanto è accaduto il protagonista è, in ultima analisi, lo Spirito Santo. Egli ha ispirato la decisione di Benedetto XVI per il bene della Chiesa; Egli ha indirizzato nella preghiera e nell’elezione i Cardinali.
«E’ importante, cari amici, tenere in debito conto questo orizzonte interpretativo», ha aggiunto Papa Bergoglio, «per mettere a fuoco il cuore degli eventi di questi giorni». Il Pontefice ha sottolineato tutto questo proprio prima di rivelare le ragioni della scelta del nome Francesco.
Insomma, di fronte a tutti coloro che vorranno ridurre 'sociologicamente' il Santo Padre nel "Papa dei poveri", non possiamo che ricordare che egli è innanzittutto "un testimone di Cristo". L'ex arcivescovo di Buenos Aires ha sempre aiutato - e, ancora di più, aiuterà - i poveri, ma l'ha sempre fatto - esattamente come Madre Teresa - per il proprio "sì" incondizionato a Cristo. E non, come Grillo vorrebbe raccontarci, per un interesse umanitario, ambientalista o animalista. Proprio per questo, il 'falso' e 'disincarnato' San Francesco di Grillo non è quello 'concreto' e 'carnale' di Papa Bergoglio.
Questo post è già comparso su Linkiesta del 17 marzo 2013


venerdì 15 marzo 2013

Bergoglio "fu guardato, e allora vide": l'umile realismo di Papa Francesco



Dopo lo stupore e la commozione, hanno già iniziato a diffondersi varie analisi sociologiche (irrimediabilmente contrastanti) su Papa Francesco. Un po’ com'era successo dopo la rinuncia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI. Purtroppo, però, nessuna di tali analisi - esattamente come nel caso di Ratzinger - riesce a cogliere la ragione profonda dell'umile realismo di Papa Francesco. 
Nel 2009, scrivendo la Prefazione a un libro di don Giacomo Tantardini sul pensiero di Sant'Agostino, l'allora cardinal Bergoglio così descriveva - lontano anni luce dalle riduzioni che si sentono in queste ore - la propria fede. «L’immagine per me più suggestiva di come si diventa cristiani», osservava il Vescovo di Buenos Aires, «è il modo in cui Agostino racconta e commenta l’incontro di Gesù con Zaccheo»:
Zaccheo è piccolo, e vuole vedere il Signore che passa, e allora si arrampica sul sicomoro. Racconta Agostino: «Et vidit Dominus ipsum Zacchaeum. Visus est, et vidit / E il Signore guardò proprio Zaccheo. Zaccheo fu guardato, e allora vide». Colpisce, questo triplice vedere: quello di Zaccheo, quello di Gesù e poi ancora quello di Zaccheo, dopo essere stato guardato dal Signore. «Lo avrebbe visto passare anche se Gesù non avesse alzato gli occhi», commenta don Giacomo, «ma non sarebbe stato un incontro. Avrebbe magari soddisfatto quel minimo di curiosità buona per cui era salito sull’albero, ma non sarebbe stato un incontro». 
Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo.
Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro, non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio. Invece, quando guardi il Signore e ti accorgi con gratitudine che Lo guardi perché Lui ti sta guardando, vanno via tutti i pregiudizi intellettuali, quell’elitismo dello spirito che è proprio di intellettuali senza talento ed è eticismo senza bontà.
Un realismo umile, ma inaudito che si scontra con ogni volontà di ridurlo. Il realismo di un testimone che proviene dagli «estremi confini della terra» (At 1,8). 

Questo post è già comparso su Linkiesta il 14 marzo 2013

La «rappresentazione» politica della Chiesa secondo Carl Schmitt



«C’è un sentimento antiromano». Così, nel 1923, Carl Schmitt apriva il suo breve saggio Cattolicesimo romano e forma politica. Le difficoltà della cultura moderna e contemporanea nel rapporto con la Chiesa cattolica erano infatti più che evidenti agli occhi del giurista di Plettenberg. All’inizio del XX secolo, egli coglieva un diffuso e radicale dualismo nella percezione della realtà da parte di un pensiero debole e (ormai) meramente economicista. Dualismo che impediva di comprendere, in tutta la sua portata, la «complexio oppositorum» rappresentata dalla Chiesa. Secondo Schmitt, infatti, dal momento che non ci sono opposizioni che esso «non riesca ad abbracciare», il cattolicesimo «saprà adattarsi ad ogni ordine sociale e politico».
Insieme a questo dualismo, inoltre, egli scorgeva all’opera un uso ridotto della ragione. Il razionalismo e lo scientismo avevano infatti aperto la strada a una mera ragione ‘strumentale’. Razionale, osservava criticamente Schmitt, «significa ormai soltanto un meccanismo di produzione posto al servizio della soddisfazione di qualunque bisogno materiale, senza che ci si interroghi sulla razionalità dello scopo – l’unica cosa importante – a cui quel meccanismo supremamente razionale è disponibile». Utilitaristico e tecnicistico, il pensiero moderno non riusciva pertanto a cogliere la specifica razionalità della Chiesa.


Ma ciò che affascinava Schmitt era soprattutto il carattere eminentemente «politico» del cattolicesimo. Un potere politico che «non si fonda né su mezzi di potenza economica né su mezzi militari», bensì consiste nella «rigorosa attuazione del principio di rappresentazione». La Chiesa, infatti, è «la concreta rappresentazione personale di una personalità concreta». Essa «rappresenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale, il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica». E, proprio nel rappresentare, sta «la sua superiorità su di un’epoca di pensiero economico».
Differente da ogni concezione tecnico-strumentale della politica, che finiva per essere ridotta a un semplice meccanismo di acquisizione e conservazione del potere, l’autore scorgeva così nella Chiesa la piena realizzazione di tutta la tradizione giuridica romanistica. Il conclave, e quel comignolo sulla Cappella Sistina a cui tutto il mondo guarda in queste ore, sono proprio l’evidente segno di quel carattere genuinamente ‘politico’ e ‘rappresentativo’ della Chiesa che Schmitt aveva intuito all’alba del Novecento.
Questo post è già stato pubblicato su Linkiesta 13 marzo 2013