Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

martedì 31 gennaio 2012

L'ironia delle coincidenze (e dei refusi) secondo G.K. Chesterton








Spesso una coincidenza è tutt’uno con un banale errore, e molto spesso è tutt’uno con un refuso. Ogni correttore di bozze sa che il peggior refuso non è quello che non ha senso, ma quello che ha proprio senso; non è quello che è ovviamente sbagliato ma quello che è insidiosamente giusto.

G.K. Chesterton, Quello che ho visto in America, Lindau, Torino 2011, pp. 315-316.





lunedì 30 gennaio 2012

Un ‘futuro’ Pacifico: il nuovo fronte geopolitico degli Stati Uniti






Nella primavera del 2010, l’emittente via cavo HBO decise di mandare in onda una miniserie televisiva in dieci puntate: The Pacific. Ciascuna puntata ripercorreva gli avvenimenti principali di quella Guerra del Pacifico, che l’America aveva combattuto durante il secondo conflitto mondiale. All’indomani dell’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor, infatti, gli Stati Uniti erano entrati in guerra non soltanto nello scenario europeo, ma anche sul fronte del Pacifico (dove il successo militare del Giappone era altrettanto rapido di quello tedesco nel Vecchio continente). Prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, la miniserie ebbe immediato successo e quello stesso anno riuscì a vincere ben otto Emmy Award. Oltre a rappresentare un’avvincente ricostruzione storica, che ha avuto il merito di portare alla conoscenza del grande pubblico una parte spesso dimenticata del XX secolo, la produzione televisiva è stata anche in grado – più o meno consapevolmente – di anticipare lo spirito dei tempi, riportando l’attenzione americana su una regione geopolitica per lungo tempo ritenuta quantomeno marginale.
            Sull’ultimo numero di «Foreign Policy» del 2011, infatti, è comparso un lungo articolo di Hilary Clinton dal titolo assai evocativo: America’s Pacific Century. Riprendendo e parafrasando la famosa definizione coniata da Henry Luce, storico editore della rivista «Time», secondo il quale il Novecento sarebbe stato l’«American Century», il Segretario di Stato illustra le linee fondamentali della nuova politica estera degli Stati Uniti. Il futuro geopolitico dell’ordine mondiale – osserva la Clinton – non verrà deciso né in Iraq né in Afghanistan, bensì nella zona dell’Asia-Pacifico. L’America – aggiunge – per difendere leadership, valori e interessi, dovrà pertanto attuare «un crescente investimento diplomatico, economico e strategico, nella regione». Il Segretario di Stato dell’Amministrazione Obama, affermando in sostanza una imprescindibile corrispondenza biunivoca tra il proprio Paese e quest’immenso quadrante geostrategico, ritiene non solo che l’Asia sia «cruciale per il futuro dell’America», ma anche e soprattutto che l’impegno americano nella regione risulti «vitale per il futuro dell’Asia».




Secretary of State Hillary Rodham Clinton adresses Burmese and international press in Nay Pyi Taw, Burma, on December 1, 2011. 


Il viaggio del Presidente degli Stati Uniti in alcuni Paesi nell’area del Pacifico ha rafforzato la strategia asiatica americana. La partecipazione al vertice dell’Apec, la ricerca di una collaborazione ancora più stretta con la Cina, l’intenzione di aprire una zona di libero commercio trans-nazionale nella regione, sono tutti elementi di quello smart power sempre più al centro della politica estera degli Stati Uniti. Ad attirare non poche preoccupazioni, quando non vere e proprie invettive, da parte della Cina è stato invece l’annuncio di Obama di una prossima e crescente presenza strategico-militare degli Stati Uniti in Australia. L’aumento del numero di marines presenti nel Paese e l’intensificazione dei rapporti tra le due marine militari hanno prodotto molte critiche di Pechino. Le critiche cinesi riguardano soprattutto i forti interessi che gli Stati Uniti mostrano verso il Mare Cinese Meridionale. Una zona di mare non solo ricca di riserve di petrolio e gas naturale, ma anche strategica per il controllo delle rotte commerciali dell’intero sud-est asiatico. È allora facile comprendere la strenua competizione e i forti toni diplomatici con cui Washington e Pechino giocano la loro battaglia politica nell’area del Pacifico.




In questo inizio del 2012, però, sono altri i fatti che stanno calamitando l’attenzione internazionale. Il primo anniversario delle rivolte arabe e i verdetti delle elezioni nei Paesi coinvolti, le tensioni con l’Iran in merito al programma nucleare e allo Stretto di Hormuz, riportano lo sguardo sul (dis)ordine del Medio e Vicino Oriente. Tuttavia, le linee di una nuova politica estera asiatica espresse dalla Clinton non costituiscono un semplice e forse frettoloso ‘balzo in avanti’, è assai probabile che esse vengano mantenute persino dopo le elezioni presidenziali di novembre, anche nell’ipotesi in cui dovesse prevalere un candidato repubblicano. E ciò anche in relazione alla presentazione al Pentagono del documento Sustaining U.S. Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, con cui Obama e il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, hanno illustrato il futuro della strategia militare americana. Una strategia sempre più basata sul navalismo e meno propensa a lunghe operazione di occupazione terrestre (come le recenti operazioni in Afghanistan e Iraq). Una strategia che, inoltre, non solo chiede alla Nato di prendersi sempre più cura del Mediterraneo e dei suoi Paesi rivieraschi, ma che lascia gli Stati Uniti ancora più liberi di rivedere le proprie priorità geopolitiche.
Appare pertanto quasi profetica l’idea, avanzata fin dalla prima metà degli anni Venti del secolo scorso dallo storico e internazionalista inglese Arnold J. Toynbee, di uno spostamento del «centro degli affari internazionali» dall’Atlantico al Pacifico. In un crescendo di tensioni, dovute all’approvvigionamento energetico e alle rivalità economico-politiche, il futuro dell’America sembra destinato ad essere sempre più Pacifico.




Questo articolo è stato pubblicato su www.ilsussidiario.net il 28 gennaio 2012.

venerdì 27 gennaio 2012

Il destino di un esperimento



Nessuna nazione è sacra e unica, né gli Stati Uniti né le altre. Tutte le nazioni sono vicine a Dio; al pari di ogni altro paese, l’America ha interessi reali e immaginari, tensioni generose ed egoistiche e moventi onorevoli e squallidi. La Provvidenza non ha distinto l’America da stirpi inferiori. Anche noi facciamo parte della fitta trama della storia. […] Gli americani possono andare orgogliosi della propria nazione, non per quello che pretendono un compito affidato da Dio e un sacro destino, ma in quanto adempiono ai loro più profondi valori in un mondo enigmatico. L’America resta sempre un esperimento. Soltanto lavorando duramente all’esperimento conquisterà il proprio destino. Il risultato non è per niente certo.

A.M. Schlesinger Jr., The Cycles of American History, Houghton Mifflin, Boston 1986; trad. it. I cicli della storia americana, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, p. 79. 


 

giovedì 26 gennaio 2012

"Non ci sono più le mezze stagioni". Quale futuro per il mondo arabo tra ‘primavera’ e ‘autunno’?







«Un racconto non ha né principio né fine: si sceglie arbitrariamente un certo momento dell’esperienza dal quale guardare indietro, o dal quale guardare avanti». Così il grande romanziere Graham Greene apre uno dei suoi libri più celebri, Fine di una storia. Per analizzare l’esperienza delle proteste che hanno attraversato e ridisegnato nell’ultimo anno le regioni del Nord Africa, oltre che alcuni Paesi del Vicino e Medio Oriente, non si può che scegliere il 17 dicembre 2010. Il momento dal quale guardare indietro o avanti nel racconto della cosiddetta ‘primavera araba’ coincide con il giorno in cui l’ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco in segno di protesta contro il sequestro della propria merce da parte della polizia. A una settimana di distanza dal tragico gesto, le proteste si diffusero in tutta la nazione. E, in breve tempo, come in un effetto domino, si sono allargate a Egitto, Libia, Siria, Barhein, Yemen, Giordania e Gibuti, oltre che – seppur in maniera minore – ad altri Paesi.

I moti popolari sono giunti a risultati parziali, diversi e, in un certo senso, contraddittori. Se in Tunisia e in Egitto hanno avuto luogo alquanto repentine rivoluzioni, in grado di porre fine alle dittature di Ben Ali e Hosni Mubarak, in Libia – pur a fronte di un intervento della Nato, giustificato da motivi umanitari ma essenzialmente dettato da interessi economici – la presa del potere da parte degli insorti ha dovuto conoscere una sanguinosa guerra civile prima di raggiungere il suo scopo, ossia la detronizzazione e l’uccisione di Gheddafi. Altri Stati, invece, hanno conosciuto un ‘autunno’ precoce. Il regime baathista di Assad, tra l’impotenza e il (dis)interesse strategico del sistema internazionale, ha represso con cruda violenza ogni forma di protesta. Forse, la recente morte di Gheddafi spingerà alcuni attori internazionali a mettersi sulla via di Damasco. Una accelerazione verso un regime change in Siria tuttavia non significherà certamente la risoluzione dei problemi del Paese, piuttosto una nuova destabilizzazione della regione dall’esito imprevedibile e spaventoso che andrà probabilmente a interessare anche il precario equilibrio del Libano.




Ma, il cambio di stagione, come dimostrano gli attentati contro i copti d’Egitto non si è fatto attendere neppure in un Paese che aveva gestito la transizione in maniera ordinata e istituzionale. Sulle rive del Nilo, tensioni e regolamenti di conti tra le diverse componenti etnico-religiose non fanno che aumentare il delicato compito dell’esercito in attesa della lunga fase elettorale e costituente del nuovo Egitto.


Le fondate rivendicazioni socio-economiche e politiche da cui è scaturito il sogno della ‘primavera araba’ si sono ben presto trovate di fronte all’incubo di un ‘autunno arabo’, segnato dalla violenza e dall’odio etnico-religioso. L’iniziale (ed eccessivo) idealismo dei manifestanti si scontra con l’attuale cinismo delle diverse fazioni in cerca del potere politico, gettando sia gli arabi sia gli osservatori occidentali nello scetticismo. Per non rimanere bloccati nella sterile e soffocante contrapposizione tra idealismo e cinismo, l’unico modo di guardare al futuro di tutti questi Paesi è con realismo. Pur consapevoli delle illusioni o delle difficoltà sempre in agguato, soltanto concependo la realtà della ‘primavera araba’ come un elemento positivo e un’opportunità di cambiamento, è possibile sfuggire dal triste orizzonte di un crepuscolare ‘autunno arabo’, di un’occasione sprecata per l’intero mondo arabo




Questo articolo è apparso sulla newsletter di Globus et Locus nel novembre 2011  

Il tempo e l'Avvenimento - Thomas S. Eliot







Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo, 
Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: selezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo, 
Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato. 
Quindi sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo, 
Attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo; 
Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, 
Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce; 
Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via.

T.S. Eliot, Cori da “La Rocca”, VII




martedì 24 gennaio 2012

«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Iran, Stati Uniti e lo stretto di Hormuz













«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Così recita un vecchio proverbio popolare. Per descrivere la crescente tensione tra Stati Uniti e Iran in questi ultimi giorni che conducono verso la fine del 2011 non sembra esistere espressione migliore. E ciò non solo perché il motivo del contendere ruota attorno alla libera navigazione nelle acque dello Stretto di Hormuz, ma anche e soprattutto perché tra l’escalation verbale e quella diplomatico-militare sembra davvero passare molta acqua sotto i ponti. L’apprensione è (e, forse, deve rimanere) grande. Ma, se cerchiamo di interpretare con realismo gli interessi nazionali di America e Iran, il pericolo di un nuovo conflitto non dovrebbe essere dietro l’angolo. Alla minaccia di ieri del vicepresidente iraniano Mohamed Reza Rahimi di bloccare con facilità e rapidità il passaggio delle imbarcazioni in uscita e in entrata dal Golfo Persico come contropartita a possibili nuove sanzioni contro il programma nucleare iraniano, è giunta oggi la tempestiva risposta di Rebecca Rebarich, portavoce della V flotta americana di stanza in Bahrain, la quale ha affermato con risolutezza che «ogni interruzione del traffico navale nello stretto di Hormuz non sarà tollerata».
Angusto braccio di mare che divide la Penisola arabica dalle coste iraniane, lo stretto è un crocevia fondamentale per il traffico mondiale del greggio trasportato via mare. Pertanto, un suo eventuale blocco per mano dalla Marina militare iraniana, che in questi giorni sta effettuando delle esercitazioni proprio in quelle acque, potrebbe rappresentare non solo un serio problema per il commercio energetico mondiale, ma anche determinare tanto prevedibili quanto non quantificabili aumenti del prezzo del greggio (regolato nella sua quotazione attraverso strumenti finanziari assai sensibili agli equilibri politici mondiali). Due conseguenze che non possono essere tollerate né dall’Occidente, né dalle Grandi potenze asiatiche.




 




Il nodo strategico e geopolitico rappresentato dalla disputa iraniano-statunitense sullo stretto di Hormuz è assai complesso e intricato. Per tentare di scioglierlo, occorre tenere ben presenti i tanti fattori in gioco sia nell’instabile e proteiforme equilibrio della regione mediorientale, sia nei sistemi politici interni di entrambi i Paesi. E una tale operazione conduce inevitabilmente ad allontanare l’ipotesi di imminenti scenari di guerra. Da un lato, infatti, non sembra essere nell’interesse iraniano destabilizzare lo status quo di un Medio Oriente in cui – anche grazie alla disastrosa campagna militare in Iraq degli Stati Uniti – il Paese di Mahmud Ahmadinejad e Ali Khamenei gode di una posizione strategica rilevante, che potrebbe solo deteriorarsi in seguito a uno scontro armato e passare nelle mani di una sempre più intraprendente Turchia. Al tempo stesso, anche gli Stati Uniti – ancora impegnati in Afghanistan e sempre più attenti a ciò accade nella regione dell’Asia-Pacifico – non sembrano ben disposti a imbarcarsi in una nuova avventura bellica. Un’impresa, quest’ultima, troppo dispendiosa in termini politici, economici e umani. Dall’altro lato, se rivolgiamo lo sguardo verso l’interno, possiamo notare come l’Iran sia alle prese con una situazione di forte crisi economica (aggravata dalle attuali sanzioni internazionali). Una situazione che gli scenari di guerra – ma, conta dirlo, anche quelli di nuove e più aspre sanzioni – renderebbero ancora più drammatica non solo da sostenere per la popolazione, ma anche da gestire per il potere in termini di controllo politico. In egual modo, in America, la corsa alle elezioni presidenziali del 2012 sconsiglia a Obama di arrivare al punto di rottura definitivo.









Molto probabilmente, la crisi – in questo momento, ancora più virtuale che reale – dello stretto di Hormuz si risolverà in un blocco parziale del passaggio di navi, con lo scopo dichiarato da parte dell’Iran di far aumentare il prezzo del greggio. Un possibile aumento del prezzo del petrolio che gli Stati Uniti e con loro tutta la comunità internazionale cercherà di oltrepassare e di far ricadere sul Paese degli Ayatollah. La soglia di tolleranza di Iran e Stati Uniti varierà in relazione all’evolversi degli eventi, che sono e (devono rimanere) imprevedibili. Ma, ora, è possibile affermare che la saggezza popolare mostra ancora tutta la sua perspicace validità e il suo più crudo realismo. «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare», anche a Hormuz.






Questo articolo è apparso il 30 dicembre 2011 su www.ilsussidiario.net



Una soluzione per la crisi dell’Europa (e della Germania): il «realismo cristiano»












In The Irony of American History del 1952, riflettendo sui rischi e le responsabilità a cui gli Stati Uniti erano stati chiamati dai grandi cambiamenti avvenuti nel sistema internazionale, Reinhold Niebuhr invitava il proprio Paese a non perdersi in linee di politica estera caratterizzate dall’idealismo. Pertanto, chiedeva con forza all’America di allontanare da sé ogni convinzione di essere la nazione più virtuosa del mondo. Una tale scelta avrebbe infatti prodotto nuovamente l’irrompere dell’«ironia» nelle vicende politiche americane, spingendo così i sogni degli Stati Uniti ad essere sempre infranti dalla storia. Per il teologo protestante, nelle situazioni ironiche la virtù diventa vizio per qualche difetto nascosto nella stessa virtù, la forza si fa debolezza a causa della vanità a cui la forza può spingere una nazione potente, la sicurezza si tramuta in insicurezza perché vi è riposta eccessiva fiducia, e la saggezza diventa follia dal momento che non si conoscono (o non si ha coscienza) dei propri limiti.
Al tempo stesso, proprio per evitare una deriva idealista, Niebuhr suggeriva agli Stati Uniti di elaborare strategie realistiche nei confronti delle numerose questioni che si stavano affacciando nel sistema internazionale. Nel far ciò, tuttavia, ammoniva il Paese a non cadere nel pericolo opposto di raggrinzirsi in una posizione eminentemente cinica. L’America – secondo il teologo protestante – correva il grave rischio di affermare una concezione dell’interesse nazionale troppo ridotta, ossia incapace di cogliere l’esistenza del legittimo interesse degli altri Stati. Miope ed egoistica, una tale visione dell’interesse nazionale non poteva infatti che condurre gli Stati Uniti su una strada sbagliata. Una strada lungo la quale ogni anelito alla pace e alla giustizia tra le nazioni, benché idealmente proclamato o tentativamente perseguito, sarebbe stato pressoché precluso dal tortuoso dramma della storia.
            La soluzione che Niebuhr offriva agli Stati Uniti per fuggire i due corni del dilemma tra idealismo sentimentale e realismo cinico era quella di applicare alle vicende interne e internazionali del Paese lo sguardo del «realismo cristiano». Quest’ultimo, secondo l’autore, rappresentava un metodo di conoscenza che, avanzando la pretesa di tener conto di tutti i fattori della realtà, poteva così condurre a un suo più adeguato intendimento. Il «realismo cristiano», riconoscendo l’ambiguità di ogni azione politica, ossia la compresenza tanto del bene quanto del male in ciascuna opzione, non solo avrebbe permesso una desacralizzazione della politica estera, ma avrebbe anche e soprattutto costituito un rifiuto del mondo hobbesiano. 








A sessant’anni di distanza dalla pubblicazione del volume, pur con una situazione internazionale radicalmente trasformata, i suggerimenti di Niebuhr non hanno affatto perso il loro valore. Anzi, appaiono oggi ancora più stringenti non soltanto per l’America (in un sistema politico globale ormai sempre più multipolare), ma anche per i Paesi dell’Unione europea impegnati in una lotta contro il tempo e contro la speculazione internazionale. In particolare, la necessità di cambiare rotta e acquisire una visione realista ma piena di speranza del presente e del futuro del Vecchio continente appare imprescindibile per la Germania. Quest’ultima, infatti, ritornata da protagonista – e non da terreno di scontro tra opposti schieramenti come durante il bipolarismo – al centro della politica europea con il crollo del Muro di Berlino, sembra sempre più subire il fascino perverso sia dell’idealismo, sia del cinismo. La Germania, da un lato, è sentimentalmente idealista perché ritiene se stessa la più virtuosa delle nazioni d’Europa. Una nazione che non può non insegnare agli altri Paesi come ci si deve comportare. E fa di questa falsa virtù – proprio perché ottenuta scorporando dal suo debito pubblico le passività del Kfw, le quali farebbero balzare quasi a quota cento l’incidenza del debito sul prodotto interno lordo – lo strumento di accusa verso gli Stati ‘cicala’ suoi vicini, come l’Italia, che nel corso degli anni hanno creato (con gravi responsabilità) un enorme dissesto nei loro conti pubblici. Dall’altro lato, la Germania è anche realista perché antepone in modo miope ed egoistico al futuro del progetto europeo il proprio interesse nazionale (o, almeno quello di una parte del suo ceto politico che, ormai prossimo alle elezioni per il rinnovo del Parlamento, è concentrato solo nel non perdere consenso tra l’elettorato tedesco). Segnali di questa tendenza sono evidenti non solo nell’estrema lentezza con cui i tedeschi si sono mossi nei confronti della Grecia, ma anche nel loro tergiversare verso l’ipotesi di trasformare la Bce in un prestatore di ultima istanza.
Forse, per uscire dalle secche di questa grave situazione che attanaglia i Paesi membri dell’Unione europea ormai da molti mesi e che sembra non offrire soluzione che i mercati non siano pronti a bocciare continuamente, sarebbe utile che i diversi Stati del Continente – e, soprattutto, la Germania – cercassero di far proprio il «realismo cristiano» di Niebuhr. Soltanto uno sguardo realistico, ma non cinico, sull’impasse attuale può permettere di riscoprire e rinvigorire quell’ideale – spesso tradito dalla costruzione istituzionale successiva – verso cui Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi guardavano nel momento fondativo dell’Europa. Soltanto uno sguardo realistico, e pieno di speranza perché cristiano, può impedire che alla crisi finanziaria o politica possa succedere – per dirla con Ernst Nolte – una nuova «guerra civile europea».








Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2012 su www.ilsussidiario.net