Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

giovedì 18 dicembre 2014

Il nuovo «uomo invisibile». Recensione a Expulsions di Saskia Sassen



Questa recensione a S. Sassen, Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy, Belknap Press/Harvard University Press, Cambridge (MA) 2014, è già stata pubblicata su Globus et Locus il 15 dicembre 2014.


Nel 1897, con il romanzo fantascientifico The Invisible Man, lo scrittore britannico Herbert George Wells creò un personaggio destinato a rappresentare una fonte d’ispirazione per numerosi altri racconti. Il protagonista della storia, Griffin, è un soggetto colpito da esclusione sociale, che vive già ai margini di un sistema, dal quale decide ‘autonomamente’ di uscire attraverso l’invisibilità. Ai giorni nostri, invece, esiste un altro tipo d’invisibilità, che non riguarda la fantascienza...



venerdì 12 dicembre 2014

Reinhold Niebuhr and the Irony of American History in and after the Cold War






At the beginning of the 1950s, Reinhold Niebuhr used the Christian concept of ‘irony’ to explain the difficult condition of the United States in the international system. In The Irony of American History the protestant theologian analyzed the ambiguity of American foreign policy during the first years of the Cold War. According to Niebuhr, the United States was involved in an ironic confutation of its sense of virtue, strength, security and wisdom. This confutation was due not only to its lack of (Christian) realism but also to its false claim to dominate history. After the Fall of the Berlin Wall, when America became the most powerful nation of the international system, the irony of its history did not disappear. Even in a totally different situation for structure and distribution of power, compared to the one of sixty years ago, the ambiguous situation the United States is dealing with, can be spelt out trough irony again. This article discusses the lasting validity of the concept of ‘irony’ used to explain American present and, perhaps, future.





lunedì 1 dicembre 2014

La stanchezza di Grillo e quella richiesta inevasa di partecipazione. A proposito di un volume di Fabio Chiusi


Questa recensione è già apparsa su Europa il 25 aprile 2014

«Un’idea, un concetto, un’idea», cantava Giorgio Gaber nel 1974, «finché resta un’idea è soltanto un’astrazione», aggiungendo con un tagliente paradosso, «se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione». A quarant’anni di distanza, l’arguta ironia dell’artista milanese ritorna ancora utile e attuale di fronte a una delle idee più promettenti e, al tempo stesso, controverse della politica contemporanea. Con il sorgere dell’era digitale, infatti, non pochi hanno salutato l’avvento della e-democracy come un cambiamento rivoluzionario, in grado di ridare vigore alle asfittiche condizione in cui versano i regimi democratici all’interno del sistema globale.
            Molto spesso, però, i roboanti proclami di improvvisati profeti sul valore palingenetico delle nuove frontiere della partecipazione politica dei cittadini attraverso la tecnologia hanno prodotto risultati di gran lunga inferiori alle aspettative. Ciononostante, non è possibile nascondere come, seppur a fronte di evidenti ingenuità teoriche o carenze pratiche, alcune formazioni politiche, che si richiamano apertamente a tali coordinate ideali, abbiano ottenuto dei risultati formidabili alle elezioni politiche. Ben più che l’esperimento della «democrazia liquida» del Partito Pirata in Germania, è l’incredibile successo del Movimento 5 Stelle nel nostro Paese a costituire un improrogabile oggetto di analisi.



Prima e dopo l’ultimo appuntamento elettorale, numerosi sono stati gli autori che hanno tentato di descrivere il fenomeno dai contorni ancora sfumati e inquietanti della «iperdemocrazia», teorizzata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Con il suo recente Critica della democrazia digitale. Lapolitica 2.0 alla prova dei fatti (Codice edizioni, Torino 2014, pp. 175, 11,90 euro), Fabio Chiusi intende «indagare la valenza pratica e concreta degli esperimenti di democrazia digitale alla luce delle speranze che da decenni continua invariabilmente a suscitare, a prescindere da qualsivoglia rapporto con i fatti e i risultati prodotti». Il giornalista e blogger italiano compie la propria analisi sullo «stato presente della democrazia digitale» con umiltà e scettico realismo, opponendosi all’idea per cui «il digitale sia necessariamente un bene per la democrazia», al di là del contesto politico e del quadro normativo.
Nelle pagine del volume, che prende coscientemente in considerazione soltanto i progetti con ambizione nazionale piuttosto che le singole esperienze locali, l’autore affronta l’argomento da prospettive differenti. E però complementari.
Da un lato, sotto il profilo teorico, poggiandosi sulla riflessione di Hans Kelsen e soprattutto di Norberto Bobbio, Chiusi mostra le tante aporie contenute nelle ingenue tesi degli anarco-tecnologisti e dei populisti digitali. Con le sue «promesse non mantenute» (per dirla con una famosa espressione del filosofo torinese), la democrazia digitale rappresenta nient’altro che una riproposizione dell’antica utopia della democrazia diretta. Un regime politico che, nella sempre difficile miscela fra bisogno di trasparenza e necessità di controllo, finisce assai spesso per assumere le claustrofobiche sembianze delle distopie raccontate da Jeremy Bentham, Aldous Huxley e George Orwell.



Dall’altro lato, sotto il profilo empirico, Chiusi utilizza invece la più recente letteratura accademica per evidenziare le potenzialità ancora da dimostrare e i già evidenti limiti dei vari esperimenti di e-democracy in tutto il mondo. Svizzera, Islanda, Cile, Finlandia, Estonia, Stati Uniti e Italia, sono i tanti Paesi in cui a fronte delle elevate aspettative – generate da progetti di costituzione in crowdsourcing, deliberazione online e voto elettronico – sono stati raggiunti risultati parziali e modesti. Nel rapporto tra tecnologia e politica, come sottolinea giustamente l’autore, eccessive e fuorvianti sono le speranze attribuite alla prima di fronte alla resistente vischiosità della seconda.
            In fondo, osserva Chiusi, le troppe aspettative riposte nella democrazia digitale sono nient’altro che l’evidente segno di una diffusa e più profonda crisi non solo dei partiti, ma anche e soprattutto della rappresentanza politica (a cui, molto probabilmente, è da imputare il vero motivo del successo elettorale del M5S). Gran parte dei cittadini, infatti, più che confidare nella profetica retorica sul ruolo salvifico della rete, esprime una non più rinviabile esigenza di libertà e partecipazione. D’altronde, la «libertà» – cantava ancora Gaber, sempre all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso – «non è uno spazio libero» (come quello rappresentato dalla rete), la «libertà è partecipazione», che tuttavia la democrazia digitale non sembra ancora in grado di garantire.