A Strasburgo, ieri, Papa Francesco ha sottolineato in un significativo passaggio del suo importante discorso al parlamento Europeo che una «Europa che non è più capace di
aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un’Europa che lentamente
rischia di perdere la propria anima e anche quello “spirito umanistico” che
pure ama e difende». Proprio questa attenzione alla dimensione trascendente dell'uomo ha permesso nel corso del Novecento a Reinhold Niebuhr di offrire un'utile contributo alla comprensione della realtà politica internazionale. Nel mio Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale (Rubbettino, 2014), analizzo il contributo del teologo protestante, sottolineando come l'apertura al trascendente sia ciò che permette al suo «realismo cristiano» di comprendere la realtà nella profondità del suo significato.
Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it(Reinhold Niebuhr)
mercoledì 26 novembre 2014
L'audacia di un «realismo trascendente»: Papa Francesco e Reinhold Niebuhr
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martedì 25 novembre 2014
Una possibile necessità. Metodo ed ethos della democrazia nel pensiero politico di Reinhold Niebuhr
di Luca G. Castellin
Questo saggio è pubblicato in «Storia del pensiero politico», III (2014), 2, pp. 265-283.
«La capacità di
giustizia dell’uomo rende possibile la democrazia, ma la sua inclinazione
all’ingiustizia rende la democrazia necessaria»[1].
Così, nella premessa alla prima edizione di The Children of Light and the Children of Darkness, pubblicato
nel tardo autunno del 1944, Reinhold Niebuhr espone in maniera sintetica e vuole
legittimare in forma realistica il metodo democratico. Secondo il teologo
protestante, la democrazia possiede una validità più profonda e richiede una giustificazione
più forte rispetto alle visioni eccessivamente ottimistiche che troppo spesso sono
state (e continuavano a essere) utilizzate per difenderla. Espressioni
dell’utopia connaturata al perfezionismo moderno, tali visioni – osserva l’autore
già all’inizio degli anni Quaranta – hanno addirittura rischiato di metterne a repentaglio
la sopravvivenza di fronte alle molteplici minacce provenienti dai
totalitarismi del XX secolo[2].
Con l’obiettivo di evitare interpretazioni parziali e fuorvianti, le quali tendono
spesso a dimenticare che ogni uomo possiede sia impulsi egoistici sia una
propensione alla socialità, ossia che in ciascuna persona convivono al tempo
stesso un’inclinazione all’ingiustizia e una capacità di giustizia, il teologo
protestante ritiene che la democrazia è in grado di prosperare soltanto quando
la natura umana venga compresa nella sua ambigua complessità. Pertanto, considerando
inutili e dannosi tanto un cinico realismo quanto un idealismo sentimentale, egli
propone una riscoperta della prospettiva cristiana sull’uomo e sulla politica[3].
Nella visione antropologica della fede biblica, infatti, Niebuhr sostiene che siano
contenuti elementi fondamentali per acquisire un adeguato intendimento della
storia e della realtà, in grado di salvaguardare non solo il metodo, ma anche l’ethos della democrazia.
[1] R. Niebuhr, Figli della luce e figli delle tenebre. Il
riscatto della democrazia: critica della sua difesa tradizionale (1944), Roma,
Gangemi, 2002, p. 48.
[2]
R. Niebuhr, The Christian Faith and the
World Crisis, in «Christianity and Crisis», 10 febbraio 1941, ora in Id., Love and Justice. Selections from the
Shorter Writings,
edited by D.B. Robertson, Cleveland - New York, The World Publishing Company,
1957, pp. 279-285, in particolare pp. 279-280.
[3]
Cfr. R. Niebuhr, Autobiografia
intellettuale (1956), in Id., Una
teologia per la prassi. Autobiografia intellettuale, editoriale e
traduzione di M. Rubboli, Brescia, Queriniana, 1977, pp. 43-76, specie pp.
54-67.
lunedì 24 novembre 2014
Il gioco delle parti. Chesterton e Belloc sulla «partitocrazia»
Questa recensione è già apparsa il 24 giugno su Europa.
«Il
sistema dei partiti non è solamente, anche se lo è in parte, un insieme di
buffoni. È più che altro un insieme di ipocriti, e si basa sulla menzogna. I
suoi strumenti principali sono l’avidità e la paura». E, ancora, «la stampa è
senza dubbio assai devota al sistema dei partiti: lo è più di qualsiasi altro
ente statale, eccezion fatta per i politici di professione». Anche se
potrebbero sembrare parti di un’invettiva tratta da qualche comizio di Beppe
Grillo o da qualche post del comico genovese sul proprio blog, queste parole
sono in realtà uno stralcio di un appassionato saggio scritto a quattro mani da
due polemisti inglesi all’inizio del Novecento. Di fronte all’apatia dell’opinione
pubblica rispetto alle vischiose dinamiche della politica parlamentare all’interno
della Camera dei Comuni, Hilaire Belloc e Cecil Edward Chesterton (fratello
minore del ben più famoso Gilbert Keith) decisero di dare alle stampe il
vibrante pamphlet The Party System
nel 1911. Rimasto per più di un secolo pressoché sconosciuto nel nostro Paese,
il volume – che sarà nelle librerie a partire dal 25 giugno – è ora
opportunamente proposto da Rubbettino con il titolo Partitocrazia.
Evocativo e accattivante, il termine partitocrazia,
coniato nel dopoguerra da Giuseppe Maranini per fotografare il già alterato
stato di salute della nostra politica, è estremamente adatto a descrivere il
contenuto del volume pubblicato dall’editore calabrese. Soprattutto perché, nel
leggere le pagine dell’opera di Belloc e Chesterton, il lettore potrà trovare
incredibili assonanze con la realtà che lo circonda. Tuttavia, occorre subito
sgombrare il campo da un possibile e poco auspicabile equivoco di fondo: tempo,
contingenze e attori sono profondamente differenti da quelli attuali. Occorre,
infatti, contestualizzare la denuncia dei due giornalisti inglesi. Questa
inchiesta sul sistema dei partiti nell’ultima fase dell’età vittoriana si
inserisce in un contesto contrassegnato da una scarsa mobilitazione elettorale
e da bassa partecipazione politica. Niente a che vedere, pur a fronte dell’astensionismo,
con ciò che possiamo leggere sui quotidiani ogni giorno. Allora, perché è utile
soffermarsi sulle pagine di questo saggio?
La risposta è alquanto semplice. In maniera lucida
e precisa, Belloc e Chesterton nel descrivere i problemi della politica a loro
coeva sembrano coglierne alcune regolarità o, per meglio dire, alcune patologie.
Patologie che possono debilitare anche la politica odierna. L’autoreferenzialità
dei regolamenti parlamentari, il richiamo al voto utile, il proliferare di
fondi segreti, la diffusione della corruzione sono tutte criticità che sono in
grado di riapparire non solo in tempi, ma anche a latitudini differenti. Molto
spesso, però, si ritiene che siano soltanto ‘malanni’ italiani, a cui altri
sistemi politici – del passato, del presente o del futuro – siano immuni. Non è
così. Entrambi gli autori mettono in guardia dalla tendenza dei partiti a
trasformarsi in «corporazioni oligarchiche chiuse», che perpetuano la loro
esistenza attraverso una cattiva «cooptazione» di membri al loro interno e che
agiscono esclusivamente per accaparrarsi «i vantaggi che vengono dall’essere il
gruppo di governo», finendo in tal modo per perpetrare quelle «finzioni» in
grado di garantire la loro esistenza parassitaria.
Partitocrazia non si ferma
però alla pars destruens, ma con
disincantata speranza guarda anche alla pars
costruens. Belloc e Chesterton non soffiano però sul fuoco dell’antipolitica,
né propongono rimedi palingenetici, perché comprendono come sia la libertà
dell’uomo – tanto quella del rappresentante, quanto quella del rappresentato –
a essere sfidata continuamente dalla realtà. È qui che entra in gioco la figura
del «riformatore», il cui compito – o, per dirla in termini weberiani, la cui
vocazione – è quella di «concentrarsi sull’unica vera forza attiva che sostiene
il sistema partitico, l’avidità e gli intrighi di coloro che il sistema
beneficia», per scardinarla e ristabilire un’effettiva dinamica
democratico-rappresentativa. In altri termini, per cambiare verso alla
politica.
martedì 11 novembre 2014
La «beffarda fortuna» di Martin Wight
Questa recensione è già apparsa su Europa l'8 ottobre 2014.
«La
parola "fortuna" descrive l'esperienza più antica e fondamentale
nella politica».
Così, in maniera semplice e al tempo stesso perentoria, lo sfuggente ed
enigmatico Martin Wight apre un suo breve scritto risalente alla fine degli
anni Cinquanta del secolo scorso. Rimasto per quasi sei decadi chiuso
nell'archivio della London School of Economics and Political Science, Fortunae ironia in politica (Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 67, 12€) è
riemerso dall'oblio grazie al paziente e scrupoloso lavoro di Michele
Chiaruzzi, che ne ha ricomposto e riunito il dattiloscritto originale e il
manoscritto correttivo. Il testo, un inedito italiano e mondiale, impreziosisce
ora per la sua raffinata erudizione la collana "Biblioteca di
Politica" diretta da Alessandro Campi.
L'intento di Wight, il più ammirato tra gli studiosi
britannici di Relazioni Internazionali nel Novecento, è quello di dissipare le
ombre che aleggiano sulla comprensione del rapporto tra idea e azione in
politica. Per tale motivo, le pagine del volume rappresentano una severa
critica al determinismo politico. Nella consapevolezza che «persone
ed eventi sono recalcitranti alla guida risoluta», che «il
risultato dell'azione politica mai coincide con l'intenzione», e
che «mai
si può avere il controllo di tutto il materiale rilevante», l'autore inglese
accompagna il lettore lungo un affascinante viaggio tra pensatori che hanno
riflettuto sulla 'incoerenza' della politica e uomini politici che hanno
sperimentato nella prassi contraddizioni e aporie dei processi politici. Da
Aristotele a Dante, da Polibio a Bolingbroke, passando per statisti,
ambasciatori e diplomatici, viene ripercorso - in un serrato e carsico dialogo
con Niccolò Machiavelli - il tortuoso cammino della storia per evidenziare
l'incidenza delle categorie della tragedia e dell'ironia nell'esperienza
politica.
Wight, infatti, è consapevole che la realtà politica non
può essere forzosamente piegata a ciò che è (soltanto) razionale, perché
infinitamente lo supera. È nella peripezia, ossia nel capovolgimento della
situazione, che la fortuna esercita la sua azione sul corso degli avvenimenti
storici, ribaltando il destino di uomini e nazioni, perché (come tiene a
sottolineare l'autore) è soprattutto l'esperienza della politica internazionale
a costituire il palcoscenico prediletto in cui poter osservare le beffe della
fortuna.
L'agile
volumetto dell'autore britannico mette in luce - come sottolinea Chiaruzzi - «la sfida della politica», che, «inconciliabile in molte asperità», domina sia «il tentativo della comprensione», sia «l'incognito della pratica». In un momento di crisi e di incertezza, la
lettura di Fortuna e ironia in politica potrebbe allora rappresentare
per la classe politica non solo un adeguato richiamo alla consapevolezza delle
contingenze, ma anche un utile sprone all'azione. Soprattutto, perché - come
sottolineava il segretario fiorentino nel XXV capitolo de Il Principe - «la fortuna è donna; ed è necessario, volendola
tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da
questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani,
perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano».
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