Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

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martedì 11 novembre 2014

La «beffarda fortuna» di Martin Wight




Questa recensione è già apparsa su Europa l'8 ottobre 2014.

«La parola "fortuna" descrive l'esperienza più antica e fondamentale nella politica». Così, in maniera semplice e al tempo stesso perentoria, lo sfuggente ed enigmatico Martin Wight apre un suo breve scritto risalente alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Rimasto per quasi sei decadi chiuso nell'archivio della London School of Economics and Political Science, Fortunae ironia in politica (Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 67, 12€) è riemerso dall'oblio grazie al paziente e scrupoloso lavoro di Michele Chiaruzzi, che ne ha ricomposto e riunito il dattiloscritto originale e il manoscritto correttivo. Il testo, un inedito italiano e mondiale, impreziosisce ora per la sua raffinata erudizione la collana "Biblioteca di Politica" diretta da Alessandro Campi.
            L'intento di Wight, il più ammirato tra gli studiosi britannici di Relazioni Internazionali nel Novecento, è quello di dissipare le ombre che aleggiano sulla comprensione del rapporto tra idea e azione in politica. Per tale motivo, le pagine del volume rappresentano una severa critica al determinismo politico. Nella consapevolezza che «persone ed eventi sono recalcitranti alla guida risoluta», che «il risultato dell'azione politica mai coincide con l'intenzione», e che «mai si può avere il controllo di tutto il materiale rilevante», l'autore inglese accompagna il lettore lungo un affascinante viaggio tra pensatori che hanno riflettuto sulla 'incoerenza' della politica e uomini politici che hanno sperimentato nella prassi contraddizioni e aporie dei processi politici. Da Aristotele a Dante, da Polibio a Bolingbroke, passando per statisti, ambasciatori e diplomatici, viene ripercorso - in un serrato e carsico dialogo con Niccolò Machiavelli - il tortuoso cammino della storia per evidenziare l'incidenza delle categorie della tragedia e dell'ironia nell'esperienza politica.




Wight, infatti, è consapevole che la realtà politica non può essere forzosamente piegata a ciò che è (soltanto) razionale, perché infinitamente lo supera. È nella peripezia, ossia nel capovolgimento della situazione, che la fortuna esercita la sua azione sul corso degli avvenimenti storici, ribaltando il destino di uomini e nazioni, perché (come tiene a sottolineare l'autore) è soprattutto l'esperienza della politica internazionale a costituire il palcoscenico prediletto in cui poter osservare le beffe della fortuna.
            L'agile volumetto dell'autore britannico mette in luce - come sottolinea Chiaruzzi - «la sfida della politica», che, «inconciliabile in molte asperità», domina sia «il tentativo della comprensione», sia «l'incognito della pratica». In un momento di crisi e di incertezza, la lettura di Fortuna e ironia in politica potrebbe allora rappresentare per la classe politica non solo un adeguato richiamo alla consapevolezza delle contingenze, ma anche un utile sprone all'azione. Soprattutto, perché - come sottolineava il segretario fiorentino nel XXV capitolo de Il Principe - «la fortuna è donna; ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica degiovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano».



venerdì 11 aprile 2014

Niebuhr: il realismo politico oltre Machiavelli




E' del tutto comprensibile che la tradizione del realismo politico sia sempre circondata da un alone di sospetto. L'appello a quella che Machiavelli definiva nel Principe come la «realtà effettuale della cosa» si è infatti spesso tradotto non solo nel presupposto di una conoscenza "scientifica" della politica, ma soprattutto nella legittimazione del "più forte". E così il realismo si è frequentemente confuso con un cinismo compiaciuto, che non esita a dileggiare le comuni aspirazioni alla giustizia e a mostrare l'impotenza politica delle prescrizioni morali.
A ben vedere, però, non tutti i realisti sono davvero indifferenti alla dimensione etica. E in questo senso risulta emblematica la riflessione di Reinhold Niebuhr (1892-1971), considerato da molti come uno dei più influenti pensatori politici americani del XX secolo. Come mostra infatti Luca G. Castellin nel suo recente Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale, lo studioso non rinuncia affatto a considerare la dimensione etica, anche se è ben consapevole delle tensioni tra etica e politica, oltre che del rapporto problematico tra morale individuale e morale sociale. E questo atteggiamento discende soprattutto dalle premesse teologiche del suo pensiero. Come tutti i grandi realisti, anche Niebuhr procede infatti dal presupposto che per comprendere davvero la politica si debbano riconoscere gli elementi costanti della natura umana. Ma il suo "realismo cristiano" attinge ad Agostino, e cioè a una visione secondo cui gli esseri umani, nonostante vivano sotto il dominio degli impulsi naturali, sono anche animati da un'insopprimibile tensione a trascendere la natura. Negli esseri umani sono così all'opera, al tempo stesso, impulsi altruistici ed egoistici. E se il potere coercitivo è necessario per consentire l'ordine politico, non è certo uno strumento in grado di rimuovere le pulsioni che spingono al conflitto e alla ricerca del potere. Proprio su queste basi Niebuhr può allora osservare le dinamiche politiche da una prospettiva più ampia e consapevole. 
E per questo Castellin lo definisce, adottando una formula di Flarmery O'Cormor, come un "realista delle distanze", capace di «vedere in primo piano le cose lontane». Ciò non vuol dire ovviamente che Niebuhr debba essere considerato come un profeta, ma significa piuttosto che lo sguardo del "realismo cristiano" gli consente sempre di cogliere l'ambiguità della politica e delle sue promesse. D'altronde Niebuhr - come scrisse Martin Wight negli armi Quaranta - può essere considerato davvero come una sorta di moderno Ezechiele. Perché, persino nei momenti in cui è più facile cedere alle seduzioni e agli entusiasmi dell'ideologia, non cessa di mettere in guardia dai rischi fatali della tracotanza e di attaccare la pretesa delle democrazie occidentali di essere gli alfieri predestinati di una causa universale di giustizia.

Questa recensione di Damiano Palano è apparsa su Avvenire il 20 marzo 2014