Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

lunedì 24 novembre 2014

Il gioco delle parti. Chesterton e Belloc sulla «partitocrazia»




Questa recensione è già apparsa il 24 giugno su Europa.


«Il sistema dei partiti non è solamente, anche se lo è in parte, un insieme di buffoni. È più che altro un insieme di ipocriti, e si basa sulla menzogna. I suoi strumenti principali sono l’avidità e la paura». E, ancora, «la stampa è senza dubbio assai devota al sistema dei partiti: lo è più di qualsiasi altro ente statale, eccezion fatta per i politici di professione». Anche se potrebbero sembrare parti di un’invettiva tratta da qualche comizio di Beppe Grillo o da qualche post del comico genovese sul proprio blog, queste parole sono in realtà uno stralcio di un appassionato saggio scritto a quattro mani da due polemisti inglesi all’inizio del Novecento. Di fronte all’apatia dell’opinione pubblica rispetto alle vischiose dinamiche della politica parlamentare all’interno della Camera dei Comuni, Hilaire Belloc e Cecil Edward Chesterton (fratello minore del ben più famoso Gilbert Keith) decisero di dare alle stampe il vibrante pamphlet The Party System nel 1911. Rimasto per più di un secolo pressoché sconosciuto nel nostro Paese, il volume – che sarà nelle librerie a partire dal 25 giugno – è ora opportunamente proposto da Rubbettino con il titolo Partitocrazia
Evocativo e accattivante, il termine partitocrazia, coniato nel dopoguerra da Giuseppe Maranini per fotografare il già alterato stato di salute della nostra politica, è estremamente adatto a descrivere il contenuto del volume pubblicato dall’editore calabrese. Soprattutto perché, nel leggere le pagine dell’opera di Belloc e Chesterton, il lettore potrà trovare incredibili assonanze con la realtà che lo circonda. Tuttavia, occorre subito sgombrare il campo da un possibile e poco auspicabile equivoco di fondo: tempo, contingenze e attori sono profondamente differenti da quelli attuali. Occorre, infatti, contestualizzare la denuncia dei due giornalisti inglesi. Questa inchiesta sul sistema dei partiti nell’ultima fase dell’età vittoriana si inserisce in un contesto contrassegnato da una scarsa mobilitazione elettorale e da bassa partecipazione politica. Niente a che vedere, pur a fronte dell’astensionismo, con ciò che possiamo leggere sui quotidiani ogni giorno. Allora, perché è utile soffermarsi sulle pagine di questo saggio?



La risposta è alquanto semplice. In maniera lucida e precisa, Belloc e Chesterton nel descrivere i problemi della politica a loro coeva sembrano coglierne alcune regolarità o, per meglio dire, alcune patologie. Patologie che possono debilitare anche la politica odierna. L’autoreferenzialità dei regolamenti parlamentari, il richiamo al voto utile, il proliferare di fondi segreti, la diffusione della corruzione sono tutte criticità che sono in grado di riapparire non solo in tempi, ma anche a latitudini differenti. Molto spesso, però, si ritiene che siano soltanto ‘malanni’ italiani, a cui altri sistemi politici – del passato, del presente o del futuro – siano immuni. Non è così. Entrambi gli autori mettono in guardia dalla tendenza dei partiti a trasformarsi in «corporazioni oligarchiche chiuse», che perpetuano la loro esistenza attraverso una cattiva «cooptazione» di membri al loro interno e che agiscono esclusivamente per accaparrarsi «i vantaggi che vengono dall’essere il gruppo di governo», finendo in tal modo per perpetrare quelle «finzioni» in grado di garantire la loro esistenza parassitaria. 
Partitocrazia non si ferma però alla pars destruens, ma con disincantata speranza guarda anche alla pars costruens. Belloc e Chesterton non soffiano però sul fuoco dell’antipolitica, né propongono rimedi palingenetici, perché comprendono come sia la libertà dell’uomo – tanto quella del rappresentante, quanto quella del rappresentato – a essere sfidata continuamente dalla realtà. È qui che entra in gioco la figura del «riformatore», il cui compito – o, per dirla in termini weberiani, la cui vocazione – è quella di «concentrarsi sull’unica vera forza attiva che sostiene il sistema partitico, l’avidità e gli intrighi di coloro che il sistema beneficia», per scardinarla e ristabilire un’effettiva dinamica democratico-rappresentativa. In altri termini, per cambiare verso alla politica.


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