In The
Irony of American History del 1952, riflettendo sui rischi e le
responsabilità a cui gli Stati Uniti erano stati chiamati dai grandi
cambiamenti avvenuti nel sistema internazionale, Reinhold Niebuhr invitava il proprio
Paese a non perdersi in linee di politica estera caratterizzate dall’idealismo.
Pertanto, chiedeva con forza all’America di allontanare da sé ogni convinzione
di essere la nazione più virtuosa del mondo. Una tale scelta avrebbe infatti prodotto
nuovamente l’irrompere dell’«ironia» nelle vicende politiche americane, spingendo
così i sogni degli Stati Uniti ad essere sempre infranti dalla storia. Per il
teologo protestante, nelle situazioni ironiche la virtù diventa
vizio per qualche difetto nascosto nella stessa virtù, la forza si fa debolezza
a causa della vanità a cui la forza può spingere una nazione potente, la
sicurezza si tramuta in insicurezza perché vi è riposta eccessiva fiducia, e la
saggezza diventa follia dal momento che non si conoscono (o non si ha
coscienza) dei propri limiti.
Al tempo stesso, proprio per evitare una deriva idealista, Niebuhr
suggeriva agli Stati Uniti di elaborare strategie realistiche nei confronti
delle numerose questioni che si stavano affacciando nel sistema internazionale.
Nel far ciò, tuttavia, ammoniva il Paese a non cadere nel pericolo opposto di
raggrinzirsi in una posizione eminentemente cinica. L’America – secondo il
teologo protestante – correva il grave rischio di affermare una concezione dell’interesse
nazionale troppo ridotta, ossia incapace di cogliere l’esistenza del legittimo
interesse degli altri Stati. Miope ed egoistica, una tale visione dell’interesse
nazionale non poteva infatti che condurre gli Stati Uniti su una strada
sbagliata. Una strada lungo la quale ogni anelito alla pace e alla giustizia
tra le nazioni, benché idealmente proclamato o tentativamente perseguito,
sarebbe stato pressoché precluso dal tortuoso dramma della storia.
La soluzione che Niebuhr offriva agli Stati Uniti per
fuggire i due corni del dilemma tra idealismo sentimentale e realismo cinico
era quella di applicare alle vicende interne e internazionali del Paese lo
sguardo del «realismo cristiano». Quest’ultimo,
secondo l’autore, rappresentava un metodo di conoscenza che, avanzando
la pretesa di tener conto di tutti i fattori della realtà, poteva così condurre
a un suo più adeguato intendimento. Il «realismo
cristiano», riconoscendo l’ambiguità di ogni azione politica, ossia la
compresenza tanto del bene quanto del male in ciascuna opzione, non solo
avrebbe permesso una desacralizzazione della politica estera, ma avrebbe anche
e soprattutto costituito un rifiuto del mondo hobbesiano.
A
sessant’anni di distanza dalla pubblicazione del volume, pur con una situazione
internazionale radicalmente trasformata, i suggerimenti di Niebuhr non hanno affatto
perso il loro valore. Anzi, appaiono oggi ancora più stringenti non soltanto
per l’America (in un sistema politico globale ormai sempre più multipolare), ma
anche per i Paesi dell’Unione europea impegnati in una lotta contro il tempo e
contro la speculazione internazionale. In particolare, la necessità di cambiare
rotta e acquisire una visione realista ma piena di speranza del presente e del
futuro del Vecchio continente appare imprescindibile per la Germania.
Quest’ultima, infatti, ritornata da protagonista – e non da terreno di scontro
tra opposti schieramenti come durante il bipolarismo – al centro della politica
europea con il crollo del Muro di Berlino, sembra sempre più subire il fascino
perverso sia dell’idealismo, sia del cinismo. La Germania, da un lato, è sentimentalmente
idealista perché ritiene se stessa la più virtuosa delle nazioni d’Europa. Una
nazione che non può non insegnare agli altri Paesi come ci si deve comportare. E
fa di questa falsa virtù – proprio perché ottenuta scorporando dal suo debito
pubblico le passività del Kfw, le quali farebbero balzare quasi a quota cento
l’incidenza del debito sul prodotto interno lordo – lo strumento di accusa
verso gli Stati ‘cicala’ suoi vicini, come l’Italia, che nel corso degli anni hanno
creato (con gravi responsabilità) un enorme dissesto nei loro conti pubblici.
Dall’altro lato, la Germania è anche realista perché antepone in modo miope ed
egoistico al futuro del progetto europeo il proprio interesse nazionale (o,
almeno quello di una parte del suo ceto politico che, ormai prossimo alle
elezioni per il rinnovo del Parlamento, è concentrato solo nel non perdere
consenso tra l’elettorato tedesco). Segnali di questa tendenza sono evidenti
non solo nell’estrema lentezza con cui i tedeschi si sono mossi nei confronti
della Grecia, ma anche nel loro tergiversare verso l’ipotesi di trasformare la
Bce in un prestatore di ultima istanza.
Forse,
per uscire dalle secche di questa grave situazione che attanaglia i Paesi
membri dell’Unione europea ormai da molti mesi e che sembra non offrire
soluzione che i mercati non siano pronti a bocciare continuamente, sarebbe
utile che i diversi Stati del Continente – e, soprattutto, la Germania – cercassero
di far proprio il «realismo cristiano» di Niebuhr.
Soltanto uno sguardo realistico, ma non cinico, sull’impasse attuale può permettere di riscoprire e rinvigorire
quell’ideale – spesso tradito dalla costruzione istituzionale successiva –
verso cui Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi guardavano nel momento
fondativo dell’Europa. Soltanto uno sguardo realistico, e pieno di speranza perché
cristiano, può impedire che alla crisi finanziaria o politica possa succedere –
per dirla con Ernst Nolte – una nuova «guerra civile europea».
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