Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

lunedì 30 gennaio 2012

Un ‘futuro’ Pacifico: il nuovo fronte geopolitico degli Stati Uniti






Nella primavera del 2010, l’emittente via cavo HBO decise di mandare in onda una miniserie televisiva in dieci puntate: The Pacific. Ciascuna puntata ripercorreva gli avvenimenti principali di quella Guerra del Pacifico, che l’America aveva combattuto durante il secondo conflitto mondiale. All’indomani dell’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor, infatti, gli Stati Uniti erano entrati in guerra non soltanto nello scenario europeo, ma anche sul fronte del Pacifico (dove il successo militare del Giappone era altrettanto rapido di quello tedesco nel Vecchio continente). Prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, la miniserie ebbe immediato successo e quello stesso anno riuscì a vincere ben otto Emmy Award. Oltre a rappresentare un’avvincente ricostruzione storica, che ha avuto il merito di portare alla conoscenza del grande pubblico una parte spesso dimenticata del XX secolo, la produzione televisiva è stata anche in grado – più o meno consapevolmente – di anticipare lo spirito dei tempi, riportando l’attenzione americana su una regione geopolitica per lungo tempo ritenuta quantomeno marginale.
            Sull’ultimo numero di «Foreign Policy» del 2011, infatti, è comparso un lungo articolo di Hilary Clinton dal titolo assai evocativo: America’s Pacific Century. Riprendendo e parafrasando la famosa definizione coniata da Henry Luce, storico editore della rivista «Time», secondo il quale il Novecento sarebbe stato l’«American Century», il Segretario di Stato illustra le linee fondamentali della nuova politica estera degli Stati Uniti. Il futuro geopolitico dell’ordine mondiale – osserva la Clinton – non verrà deciso né in Iraq né in Afghanistan, bensì nella zona dell’Asia-Pacifico. L’America – aggiunge – per difendere leadership, valori e interessi, dovrà pertanto attuare «un crescente investimento diplomatico, economico e strategico, nella regione». Il Segretario di Stato dell’Amministrazione Obama, affermando in sostanza una imprescindibile corrispondenza biunivoca tra il proprio Paese e quest’immenso quadrante geostrategico, ritiene non solo che l’Asia sia «cruciale per il futuro dell’America», ma anche e soprattutto che l’impegno americano nella regione risulti «vitale per il futuro dell’Asia».




Secretary of State Hillary Rodham Clinton adresses Burmese and international press in Nay Pyi Taw, Burma, on December 1, 2011. 


Il viaggio del Presidente degli Stati Uniti in alcuni Paesi nell’area del Pacifico ha rafforzato la strategia asiatica americana. La partecipazione al vertice dell’Apec, la ricerca di una collaborazione ancora più stretta con la Cina, l’intenzione di aprire una zona di libero commercio trans-nazionale nella regione, sono tutti elementi di quello smart power sempre più al centro della politica estera degli Stati Uniti. Ad attirare non poche preoccupazioni, quando non vere e proprie invettive, da parte della Cina è stato invece l’annuncio di Obama di una prossima e crescente presenza strategico-militare degli Stati Uniti in Australia. L’aumento del numero di marines presenti nel Paese e l’intensificazione dei rapporti tra le due marine militari hanno prodotto molte critiche di Pechino. Le critiche cinesi riguardano soprattutto i forti interessi che gli Stati Uniti mostrano verso il Mare Cinese Meridionale. Una zona di mare non solo ricca di riserve di petrolio e gas naturale, ma anche strategica per il controllo delle rotte commerciali dell’intero sud-est asiatico. È allora facile comprendere la strenua competizione e i forti toni diplomatici con cui Washington e Pechino giocano la loro battaglia politica nell’area del Pacifico.




In questo inizio del 2012, però, sono altri i fatti che stanno calamitando l’attenzione internazionale. Il primo anniversario delle rivolte arabe e i verdetti delle elezioni nei Paesi coinvolti, le tensioni con l’Iran in merito al programma nucleare e allo Stretto di Hormuz, riportano lo sguardo sul (dis)ordine del Medio e Vicino Oriente. Tuttavia, le linee di una nuova politica estera asiatica espresse dalla Clinton non costituiscono un semplice e forse frettoloso ‘balzo in avanti’, è assai probabile che esse vengano mantenute persino dopo le elezioni presidenziali di novembre, anche nell’ipotesi in cui dovesse prevalere un candidato repubblicano. E ciò anche in relazione alla presentazione al Pentagono del documento Sustaining U.S. Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, con cui Obama e il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, hanno illustrato il futuro della strategia militare americana. Una strategia sempre più basata sul navalismo e meno propensa a lunghe operazione di occupazione terrestre (come le recenti operazioni in Afghanistan e Iraq). Una strategia che, inoltre, non solo chiede alla Nato di prendersi sempre più cura del Mediterraneo e dei suoi Paesi rivieraschi, ma che lascia gli Stati Uniti ancora più liberi di rivedere le proprie priorità geopolitiche.
Appare pertanto quasi profetica l’idea, avanzata fin dalla prima metà degli anni Venti del secolo scorso dallo storico e internazionalista inglese Arnold J. Toynbee, di uno spostamento del «centro degli affari internazionali» dall’Atlantico al Pacifico. In un crescendo di tensioni, dovute all’approvvigionamento energetico e alle rivalità economico-politiche, il futuro dell’America sembra destinato ad essere sempre più Pacifico.




Questo articolo è stato pubblicato su www.ilsussidiario.net il 28 gennaio 2012.

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