Nella primavera del 2010,
l’emittente via cavo HBO decise di mandare in onda una miniserie televisiva in dieci puntate: The Pacific. Ciascuna
puntata ripercorreva gli avvenimenti principali di quella Guerra del Pacifico,
che l’America aveva combattuto durante il secondo conflitto mondiale.
All’indomani dell’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor, infatti,
gli Stati Uniti erano entrati in guerra non soltanto nello scenario europeo, ma
anche sul fronte del Pacifico (dove il successo militare del Giappone era
altrettanto rapido di quello tedesco nel Vecchio continente). Prodotta da
Steven Spielberg e Tom Hanks, la miniserie ebbe immediato successo e quello
stesso anno riuscì a vincere ben otto Emmy
Award. Oltre a rappresentare un’avvincente ricostruzione storica, che ha
avuto il merito di portare alla conoscenza del grande pubblico una parte spesso
dimenticata del XX secolo, la produzione televisiva è stata anche in grado –
più o meno consapevolmente – di anticipare lo spirito dei tempi, riportando
l’attenzione americana su una regione geopolitica per lungo tempo ritenuta quantomeno
marginale.
Sull’ultimo numero di «Foreign Policy» del 2011, infatti,
è comparso un lungo articolo di Hilary Clinton dal titolo assai evocativo: America’s Pacific Century. Riprendendo e
parafrasando la famosa definizione coniata da Henry Luce, storico editore della
rivista «Time», secondo il quale il Novecento sarebbe stato l’«American
Century», il Segretario di Stato illustra le linee fondamentali della nuova
politica estera degli Stati Uniti. Il futuro geopolitico dell’ordine mondiale –
osserva la Clinton – non verrà deciso né in Iraq né in Afghanistan, bensì nella
zona dell’Asia-Pacifico. L’America – aggiunge – per difendere leadership,
valori e interessi, dovrà pertanto attuare «un crescente investimento diplomatico,
economico e strategico, nella regione». Il Segretario di Stato
dell’Amministrazione Obama, affermando in sostanza una imprescindibile
corrispondenza biunivoca tra il proprio Paese e quest’immenso quadrante
geostrategico, ritiene non solo che l’Asia sia «cruciale
per il futuro dell’America», ma anche e soprattutto che l’impegno americano
nella regione risulti «vitale per il futuro dell’Asia».
In questo inizio del 2012, però, sono altri i fatti che
stanno calamitando l’attenzione internazionale. Il primo anniversario delle
rivolte arabe e i verdetti delle elezioni nei Paesi coinvolti, le tensioni con
l’Iran in merito al programma nucleare e allo Stretto di Hormuz, riportano lo
sguardo sul (dis)ordine del Medio e Vicino Oriente. Tuttavia, le linee di una
nuova politica estera asiatica espresse dalla Clinton non costituiscono un
semplice e forse frettoloso ‘balzo in avanti’, è assai probabile che esse
vengano mantenute persino dopo le elezioni presidenziali di novembre, anche
nell’ipotesi in cui dovesse prevalere un candidato repubblicano. E ciò anche in
relazione alla presentazione al Pentagono del documento Sustaining U.S. Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense,
con cui Obama e il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, hanno illustrato il
futuro della strategia militare americana. Una strategia sempre più basata sul
navalismo e meno propensa a lunghe operazione di occupazione terrestre (come le
recenti operazioni in Afghanistan e Iraq). Una strategia che, inoltre, non solo
chiede alla Nato di prendersi sempre più cura del Mediterraneo e dei suoi Paesi
rivieraschi, ma che lascia gli Stati Uniti ancora più liberi di rivedere le
proprie priorità geopolitiche.
Appare
pertanto quasi profetica l’idea, avanzata fin dalla prima metà degli anni Venti
del secolo scorso dallo storico e internazionalista inglese Arnold J. Toynbee, di
uno spostamento del «centro degli affari internazionali» dall’Atlantico al
Pacifico. In un crescendo di tensioni, dovute all’approvvigionamento energetico
e alle rivalità economico-politiche, il futuro dell’America sembra destinato ad
essere sempre più Pacifico.
Questo articolo è stato pubblicato su www.ilsussidiario.net il 28 gennaio 2012.
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