Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

giovedì 26 gennaio 2012

"Non ci sono più le mezze stagioni". Quale futuro per il mondo arabo tra ‘primavera’ e ‘autunno’?







«Un racconto non ha né principio né fine: si sceglie arbitrariamente un certo momento dell’esperienza dal quale guardare indietro, o dal quale guardare avanti». Così il grande romanziere Graham Greene apre uno dei suoi libri più celebri, Fine di una storia. Per analizzare l’esperienza delle proteste che hanno attraversato e ridisegnato nell’ultimo anno le regioni del Nord Africa, oltre che alcuni Paesi del Vicino e Medio Oriente, non si può che scegliere il 17 dicembre 2010. Il momento dal quale guardare indietro o avanti nel racconto della cosiddetta ‘primavera araba’ coincide con il giorno in cui l’ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco in segno di protesta contro il sequestro della propria merce da parte della polizia. A una settimana di distanza dal tragico gesto, le proteste si diffusero in tutta la nazione. E, in breve tempo, come in un effetto domino, si sono allargate a Egitto, Libia, Siria, Barhein, Yemen, Giordania e Gibuti, oltre che – seppur in maniera minore – ad altri Paesi.

I moti popolari sono giunti a risultati parziali, diversi e, in un certo senso, contraddittori. Se in Tunisia e in Egitto hanno avuto luogo alquanto repentine rivoluzioni, in grado di porre fine alle dittature di Ben Ali e Hosni Mubarak, in Libia – pur a fronte di un intervento della Nato, giustificato da motivi umanitari ma essenzialmente dettato da interessi economici – la presa del potere da parte degli insorti ha dovuto conoscere una sanguinosa guerra civile prima di raggiungere il suo scopo, ossia la detronizzazione e l’uccisione di Gheddafi. Altri Stati, invece, hanno conosciuto un ‘autunno’ precoce. Il regime baathista di Assad, tra l’impotenza e il (dis)interesse strategico del sistema internazionale, ha represso con cruda violenza ogni forma di protesta. Forse, la recente morte di Gheddafi spingerà alcuni attori internazionali a mettersi sulla via di Damasco. Una accelerazione verso un regime change in Siria tuttavia non significherà certamente la risoluzione dei problemi del Paese, piuttosto una nuova destabilizzazione della regione dall’esito imprevedibile e spaventoso che andrà probabilmente a interessare anche il precario equilibrio del Libano.




Ma, il cambio di stagione, come dimostrano gli attentati contro i copti d’Egitto non si è fatto attendere neppure in un Paese che aveva gestito la transizione in maniera ordinata e istituzionale. Sulle rive del Nilo, tensioni e regolamenti di conti tra le diverse componenti etnico-religiose non fanno che aumentare il delicato compito dell’esercito in attesa della lunga fase elettorale e costituente del nuovo Egitto.


Le fondate rivendicazioni socio-economiche e politiche da cui è scaturito il sogno della ‘primavera araba’ si sono ben presto trovate di fronte all’incubo di un ‘autunno arabo’, segnato dalla violenza e dall’odio etnico-religioso. L’iniziale (ed eccessivo) idealismo dei manifestanti si scontra con l’attuale cinismo delle diverse fazioni in cerca del potere politico, gettando sia gli arabi sia gli osservatori occidentali nello scetticismo. Per non rimanere bloccati nella sterile e soffocante contrapposizione tra idealismo e cinismo, l’unico modo di guardare al futuro di tutti questi Paesi è con realismo. Pur consapevoli delle illusioni o delle difficoltà sempre in agguato, soltanto concependo la realtà della ‘primavera araba’ come un elemento positivo e un’opportunità di cambiamento, è possibile sfuggire dal triste orizzonte di un crepuscolare ‘autunno arabo’, di un’occasione sprecata per l’intero mondo arabo




Questo articolo è apparso sulla newsletter di Globus et Locus nel novembre 2011  

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