Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

martedì 24 gennaio 2012

«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Iran, Stati Uniti e lo stretto di Hormuz













«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Così recita un vecchio proverbio popolare. Per descrivere la crescente tensione tra Stati Uniti e Iran in questi ultimi giorni che conducono verso la fine del 2011 non sembra esistere espressione migliore. E ciò non solo perché il motivo del contendere ruota attorno alla libera navigazione nelle acque dello Stretto di Hormuz, ma anche e soprattutto perché tra l’escalation verbale e quella diplomatico-militare sembra davvero passare molta acqua sotto i ponti. L’apprensione è (e, forse, deve rimanere) grande. Ma, se cerchiamo di interpretare con realismo gli interessi nazionali di America e Iran, il pericolo di un nuovo conflitto non dovrebbe essere dietro l’angolo. Alla minaccia di ieri del vicepresidente iraniano Mohamed Reza Rahimi di bloccare con facilità e rapidità il passaggio delle imbarcazioni in uscita e in entrata dal Golfo Persico come contropartita a possibili nuove sanzioni contro il programma nucleare iraniano, è giunta oggi la tempestiva risposta di Rebecca Rebarich, portavoce della V flotta americana di stanza in Bahrain, la quale ha affermato con risolutezza che «ogni interruzione del traffico navale nello stretto di Hormuz non sarà tollerata».
Angusto braccio di mare che divide la Penisola arabica dalle coste iraniane, lo stretto è un crocevia fondamentale per il traffico mondiale del greggio trasportato via mare. Pertanto, un suo eventuale blocco per mano dalla Marina militare iraniana, che in questi giorni sta effettuando delle esercitazioni proprio in quelle acque, potrebbe rappresentare non solo un serio problema per il commercio energetico mondiale, ma anche determinare tanto prevedibili quanto non quantificabili aumenti del prezzo del greggio (regolato nella sua quotazione attraverso strumenti finanziari assai sensibili agli equilibri politici mondiali). Due conseguenze che non possono essere tollerate né dall’Occidente, né dalle Grandi potenze asiatiche.




 




Il nodo strategico e geopolitico rappresentato dalla disputa iraniano-statunitense sullo stretto di Hormuz è assai complesso e intricato. Per tentare di scioglierlo, occorre tenere ben presenti i tanti fattori in gioco sia nell’instabile e proteiforme equilibrio della regione mediorientale, sia nei sistemi politici interni di entrambi i Paesi. E una tale operazione conduce inevitabilmente ad allontanare l’ipotesi di imminenti scenari di guerra. Da un lato, infatti, non sembra essere nell’interesse iraniano destabilizzare lo status quo di un Medio Oriente in cui – anche grazie alla disastrosa campagna militare in Iraq degli Stati Uniti – il Paese di Mahmud Ahmadinejad e Ali Khamenei gode di una posizione strategica rilevante, che potrebbe solo deteriorarsi in seguito a uno scontro armato e passare nelle mani di una sempre più intraprendente Turchia. Al tempo stesso, anche gli Stati Uniti – ancora impegnati in Afghanistan e sempre più attenti a ciò accade nella regione dell’Asia-Pacifico – non sembrano ben disposti a imbarcarsi in una nuova avventura bellica. Un’impresa, quest’ultima, troppo dispendiosa in termini politici, economici e umani. Dall’altro lato, se rivolgiamo lo sguardo verso l’interno, possiamo notare come l’Iran sia alle prese con una situazione di forte crisi economica (aggravata dalle attuali sanzioni internazionali). Una situazione che gli scenari di guerra – ma, conta dirlo, anche quelli di nuove e più aspre sanzioni – renderebbero ancora più drammatica non solo da sostenere per la popolazione, ma anche da gestire per il potere in termini di controllo politico. In egual modo, in America, la corsa alle elezioni presidenziali del 2012 sconsiglia a Obama di arrivare al punto di rottura definitivo.









Molto probabilmente, la crisi – in questo momento, ancora più virtuale che reale – dello stretto di Hormuz si risolverà in un blocco parziale del passaggio di navi, con lo scopo dichiarato da parte dell’Iran di far aumentare il prezzo del greggio. Un possibile aumento del prezzo del petrolio che gli Stati Uniti e con loro tutta la comunità internazionale cercherà di oltrepassare e di far ricadere sul Paese degli Ayatollah. La soglia di tolleranza di Iran e Stati Uniti varierà in relazione all’evolversi degli eventi, che sono e (devono rimanere) imprevedibili. Ma, ora, è possibile affermare che la saggezza popolare mostra ancora tutta la sua perspicace validità e il suo più crudo realismo. «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare», anche a Hormuz.






Questo articolo è apparso il 30 dicembre 2011 su www.ilsussidiario.net



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