Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

sabato 10 marzo 2012

Orizzonte di tempesta in Medio Oriente







«Nessuna nazione è sacra e unica, né gli Stati Uniti né le altre». Così il grande storico americano Arthur M. Schlesinger Jr. affermava con convinzione nel 1986, riflettendo sulla politica estera del proprio Paese. Erano gli ultimi anni di una contrapposizione, quella bipolare, che aveva visto sfidarsi due visioni del mondo antitetiche e (ciascuna, almeno nella propria sfera d’influenza) considerate “salvifiche”. «Tutte le nazioni sono vicine a Dio», continuava l’autore nelle pagine di The Cycles of American History, «al pari di ogni altro paese, l’America ha interessi reali e immaginari, tensioni generose ed egoistiche e moventi onorevoli e squallidi».
Queste osservazioni di Schlesinger, che per ogni nazione rimangono valide oggi come lo erano più di vent’anni fa, richiamano alla mente in maniera stridente l’infuocato rapporto tra due Paesi del Medio Oriente: Israele e Iran. Il primo, l’unica democrazia della regione, vive dal momento della fondazione in un perenne stato di guerra. Il secondo, una teocrazia islamica sciita, è sotto l’attenzione della comunità internazionale ormai da anni per via del proprio programma nucleare. Ma ciò che ironicamente accomuna queste due realtà antitetiche e inconciliabili è la pericolosa predisposizione a perseguire linee di politica estera “escatologiche”, proprio perché investite di un presunto (ma fortemente creduto) compito divino. Pertanto, due Stati vicini a Dio, fermamente convinti non di essere un esperimento, ma di avere un destino.




Ad aggravare questa (almeno, potenzialmente) esplosiva situazione si aggiunge la «teologia politica» – o, forse, potremmo anche dire la ‘politica teologica’ – dei loro rispettivi leaders. Da un lato, l’ormai più che ventennale Guida Suprema dell’Iran Khamenei (e il recentemente sconfitto alle elezioni del Majlis e ridimensionato Ahmadinejad) affermano di perseguire lo sradicamento di Israele dal Medio Oriente. Dall’altro, il Primo ministro Benjamin Netanyahu – figlio di un importante storico ebreo e fratello di un ereo di guerra morto a Entebbe, durante un’operazione antiterrorismo – è fermamente convinto di essere stato messo al mondo per salvare il popolo ebreo proprio dall’Iran.
Una situazione certamente incandescente, la quale potrebbe condurre ancora una volta la politica a mostrare il proprio lato genuinamente irrazionale. Uno strike preventivo israeliano, opzione che anche gli Stati Uniti sperano di evitare, potrebbe aprire scenari imprevedibili e assai destabilizzanti per tutto il Medio e Vicino Oriente. D’altronde, un Iran nucleare potrebbe aprire una corsa all’arma atomica nell’intera regione (in prevalenza sunnita), al fine di ristabilire un’equilibrio strategico tra gli Stati che la compongono. In altri termini, un nuovo «equilibrio del terrore» all’interno però di una situazione assai più preoccupante rispetto a quella del mondo bipolare. 
Soltanto il tempo, ormai sempre più limitato, sarà in grado di diradare le previsioni sul domani. Oggi, tuttavia, l'orizzonte appare oscurato da dense e pesanti nubi di tempesta. 






Articolo già pubblicato l'8 marzo 2012 su www.centoquaranta.com





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