Questa recensione è già apparsa su Europa il 25 aprile 2014
«Un’idea, un concetto, un’idea», cantava Giorgio Gaber nel
1974, «finché resta un’idea è soltanto un’astrazione», aggiungendo con un tagliente
paradosso, «se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione». A
quarant’anni di distanza, l’arguta ironia dell’artista milanese ritorna ancora
utile e attuale di fronte a una delle idee più promettenti e, al tempo stesso,
controverse della politica contemporanea. Con il sorgere dell’era digitale, infatti,
non pochi hanno salutato l’avvento della e-democracy
come un cambiamento rivoluzionario, in grado di ridare vigore alle asfittiche condizione
in cui versano i regimi democratici all’interno del sistema globale.
Molto
spesso, però, i roboanti proclami di improvvisati profeti sul valore palingenetico
delle nuove frontiere della partecipazione politica dei cittadini attraverso la
tecnologia hanno prodotto risultati di gran lunga inferiori alle aspettative.
Ciononostante, non è possibile nascondere come, seppur a fronte di evidenti
ingenuità teoriche o carenze pratiche, alcune formazioni politiche, che si
richiamano apertamente a tali coordinate ideali, abbiano ottenuto dei risultati
formidabili alle elezioni politiche. Ben più che l’esperimento della
«democrazia liquida» del Partito Pirata in Germania, è l’incredibile successo
del Movimento 5 Stelle nel nostro Paese a costituire un improrogabile oggetto
di analisi.
Prima e dopo l’ultimo appuntamento
elettorale, numerosi sono stati gli autori che hanno tentato di descrivere il
fenomeno dai contorni ancora sfumati e inquietanti della «iperdemocrazia», teorizzata
da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Con il suo recente Critica della democrazia digitale. Lapolitica 2.0 alla prova dei fatti (Codice edizioni, Torino 2014, pp. 175,
11,90 euro), Fabio Chiusi intende «indagare la valenza pratica e concreta degli
esperimenti di democrazia digitale alla luce delle speranze che da decenni
continua invariabilmente a suscitare, a prescindere da qualsivoglia rapporto
con i fatti e i risultati prodotti». Il giornalista e blogger italiano compie la
propria analisi sullo «stato presente della democrazia digitale» con umiltà e scettico
realismo, opponendosi all’idea per cui «il digitale sia necessariamente un bene
per la democrazia», al di là del contesto politico e del quadro normativo.
Nelle pagine del volume, che prende
coscientemente in considerazione soltanto i progetti con ambizione nazionale
piuttosto che le singole esperienze locali, l’autore affronta l’argomento da
prospettive differenti. E però complementari.
Da un lato, sotto il profilo teorico, poggiandosi
sulla riflessione di Hans Kelsen e soprattutto di Norberto Bobbio, Chiusi
mostra le tante aporie contenute nelle ingenue tesi degli anarco-tecnologisti e
dei populisti digitali. Con le sue «promesse non mantenute» (per dirla con una
famosa espressione del filosofo torinese), la democrazia digitale rappresenta
nient’altro che una riproposizione dell’antica utopia della democrazia diretta.
Un regime politico che, nella sempre difficile miscela fra bisogno di
trasparenza e necessità di controllo, finisce assai spesso per assumere le claustrofobiche
sembianze delle distopie raccontate da Jeremy Bentham, Aldous Huxley e George Orwell.
Dall’altro lato, sotto il profilo
empirico, Chiusi utilizza invece la più recente letteratura accademica per evidenziare
le potenzialità ancora da dimostrare e i già evidenti limiti dei vari
esperimenti di e-democracy in tutto
il mondo. Svizzera, Islanda, Cile, Finlandia, Estonia, Stati Uniti e Italia,
sono i tanti Paesi in cui a fronte delle elevate aspettative – generate da
progetti di costituzione in crowdsourcing,
deliberazione online e voto elettronico – sono stati raggiunti risultati
parziali e modesti. Nel rapporto tra tecnologia e politica, come sottolinea giustamente
l’autore, eccessive e fuorvianti sono le speranze attribuite alla prima di
fronte alla resistente vischiosità della seconda.
In fondo,
osserva Chiusi, le troppe aspettative riposte nella democrazia digitale sono
nient’altro che l’evidente segno di una diffusa e più profonda crisi non solo dei
partiti, ma anche e soprattutto della rappresentanza politica (a cui, molto
probabilmente, è da imputare il vero motivo del successo elettorale del M5S). Gran
parte dei cittadini, infatti, più che confidare nella profetica retorica sul
ruolo salvifico della rete, esprime una non più rinviabile esigenza di libertà
e partecipazione. D’altronde, la «libertà» – cantava ancora Gaber, sempre
all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso – «non è uno spazio libero»
(come quello rappresentato dalla rete), la «libertà è partecipazione», che
tuttavia la democrazia digitale non sembra ancora in grado di garantire.
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