Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

martedì 16 aprile 2013

Quello che Renzi non dice. Nella lettera a Repubblica qualche "mancata verità"


Nel 1987, Fiorella Mannoia vinse il Premio della Critica a Sanremo con Quello che le donne non dicono. Scritta da Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone, la canzone riscosse un certo successo, rimanendo per molte settimane nella classifica musicale degli singoli. Sul palco dell’Ariston, la cantautrice romana ricordava che se le donne dicono «una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà», proprio perché se si trasformano un po’ «è per la voglia di piacere a chi c’è già o potrà arrivare a stare con noi». Apparsa per la prima volta nell’album Canzoni per parlare, la bella canzone della Mannoia è paradossalmente attuale oggi alla vigilia dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica in questa pericolosa fase politica che sta attraversando il nostro Paese.
            In una lettera a Repubblica, entrando ancora di più nella mischia per il Quirinale, Matteo Renzi una qualche «mancata verità» per «la voglia di piacere a chi già c’è o potrà arrivare» ad ‘allearsi’ con lui non esita a scriverla. Nel far ciò, non solo evidenzia le tensioni (quando non vere e proprie divisioni) del Pd, ma si sofferma sul rapporto tra fede e politica. Al centro della missiva a Ezio Mauro (nella quale si scaglia legittimamente contro la candidatura di Marini, ma tace il suo appoggio a Prodi), Renzi costruisce abilmente una retorica – ma non molto convincente – difesa della laicità dello Stato. Un tentativo un po’ maldestro, anche se (a prima vista) abbastanza efficace, di fare eco alla lettera che don Julián Carrón ha scritto il 10 aprile scorso sempre a Repubblica. Accanto a un’analisi di ciò a cui il sindaco di Firenze accenna, è allora interessante capire proprio quello che il ‘rottamatore’ non dice.
            Ha ragione Renzi quando afferma di dubitare «di chi riduce il cristianesimo a insieme di precetti, norme etiche alle quali cercare di obbedire e che il buon cristiano dovrebbe difendere dalle insidie della contemporaneità», oppure di ritenere molto più infimo chi «utilizza la propria fede per chiedere posti. Per pretendere posti. Per reclamare posti non in virtù delle proprie idee, ma della propria fede». Anche se, questo atteggiamento «perdente» non è poi così frequente – come, invece, ritiene Renzi – nel mondo politico cattolico. Il cristianesimo non è la ricerca di un’egemonia politica, ma la testimonianza di una presenza. Ed è proprio a questo livello che l’astuto ragionamento del rottamatore inizia a incrinarsi.
Definendo un po’ furbescamente «gravissimo e strumentale» il fatto di poggiare una candidatura sulla fede religiosa, Renzi afferma con «orgoglio» il suo essere cattolico. Tuttavia, il tentativo «di vivere la fedeltà al messaggio e ai valori di Cristo […] davanti alla coscienza» somiglia vagamente e pericolosamente alla fiera rivendicazione di autonomia in cui avventurò qualche anno fa il “cattolico adulto” Prodi. La fede è qualcosa di personale e privato (tanto che il sindaco di Firenze è costretto a fare «outing»), ma non può in alcun modo incidere sulla vita sociale, politica ed economica. Una rivendicazione che già Benedetto XVI, durante i vespri in occasione della chiusura dell’anno paolino, sgretolò con fermezza.
«La parola “fede adulta”», osservava Papa Ratzinger nel giugno del 2009, «negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa». «In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. È la fede che egli vuole. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo». La “fede adulta” autentica, infatti, «si oppone ai venti della moda», proprio perché «non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente». Così, ribadiva con forza Benedetto XVI «fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo». Piuttosto che offrire lezioni sul rapporto tra fede e politica, cercando al tempo stesso di nascondere l’opportunismo politico di demolire una candidatura al Quirinale, sarebbe utile capire che cosa pensa il Sindaco di Firenze a proposito dei principi non negoziabili. Se di fronte alla vita, all’educazione e alla famiglia ritiene che la fede sia qualcosa di privato, oppure un fattore decisivo per portare un contributo al bene comune. Se la fede possa diventare intelligenza della realtà, oppure sia preferibile un comodo dualismo da “cattolico adulto”, la cui fede non si oppone ai venti della moda e si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. 

* Questa lettera è già stata pubblicata su www.ilsussidiario.net il 15 aprile 2013


venerdì 5 aprile 2013


«Ora andrò lontano su al Nord, a giocare al Grande gioco». Nel romanzo Kim del 1901, lo scrittore britannico Rudyard Kipling racconta la storia di un giovane tredicenne che nell'India coloniale del XIX secolo si barcamena tra intrighi e spie. Lo sfondo delle avventure di Kim è l'intricato scontro di potere tra servizi segreti inglesi e russi per il controllo dell'Asia Centrale. Il piccolo orfano si trova invischiato in quello che un ufficiale dell'esercito britannico, Arthur Connolly, morto tragicamente a Bukhara qualche anno dopo, definì come il «Grande gioco» (reso celebre dall'omonimo romanzo storico di Peter Hopkirk). 
Seppur il quadrante geopolitico e le condizioni storiche siano anche profondamente cambiate, il trentenne Supremo Leader della Corea del Nord è impegnato in questi giorni in una serie di forti provocazioni nei confronti della comunità internazionale. Kim Yong Un ha iniziato il suo «Grande gioco». Nel quale sembra davvero divertirsi, a differenza delle principali potenze internazionali. Non solo Stati UnitiGiappone Corea del Sud mostrano preoccupazione per una tale situazione, ma anche Cina Russia iniziano a mostrare non pochi malumori verso il giovane dittatore nordcoreano.

Molto probabilmente, gli allarmi e le bellicose dichiarazioni rientreranno appena Kim Yong Un sarà riuscito a rafforzare la propria autorità all'interno del regime, in particolare di fronte alle alte gerarchie dell'esercito. La dittatura comunista, infatti, rischierebbe soltanto di crollare in brevissimo tempo, qualora dovesse insorgere un casus belli che determini un attacco di risposta da parte giapponese o americana. Certo è, però, che l'imprevedibile - ma, non per questo, meno razionale - comportamento di Kim Yong Un potrebbe determinare una pericolosa escalation. Un'escalation preoccupante proprio perchè, riproponendo dinamiche internazionali che già si erano vissute in Asia Centrale nell'Ottocento, potrebbe destabilizzare un sub sistema regionale tanto cruciale, quanto già segnato da forti tensioni e rivalità. 
Il «Grande gioco» raccontato da Kipling e Hopkirk non è frutto di immaginazione letteraria. Proprio come quello a cui sta giocando il dittatore nordcoreano. Ma, sinceramente, non è desiderabile che il nuovo Kim diventi protagonista di qualche futuro romanzo storico o d'avventura. 
* Questo post è già apparso su Linkiesta il 4 aprile 2013.  




I «novanta minuti più belli» della Juventus. Dopo Chamberlain, arriverà il turno di Churchill?




Historia magistra vitae. È sì, è proprio vero. Più di settant’anni dopo. I ‘fantasmi’ della Conferenza di Monaco sono riapparsi all’orizzonte. È cambiata la stagione. Da un precoce autunno si è passati a una stentata primavera. Ma il senso della capitolazione, dell’appeasement di fronte a un nemico cinico e spietato è rimasto quello degli ultimi giorni del settembre 1938. Anche i protagonisti del dramma storico non sono cambiati. La Juventus ha vestito alla perfezione i panni di un incerto e sentimentale Neville Chamberlain, mentre il Bayern Monaco quelli di un cinico e pragmatico Adolf Hitler.

Ieri sera, alla Allianz Arena le due squadre hanno così risolto il dilemma che alla vigilia della partita attanagliava i lettori di Contropiede. Avrà ragione Andrea Rossetti oppure Alberto Coghi? Al di là delle (più o meno corrette) analisi o speranze, è stato il campo a premiare le riflessioni del primo rispetto al secondo. La squadra di Heynckes ha strapazzato quella di Conte. I bianconeri, colpiti a freddo su un ‘fortunoso’ tiro di Alaba, hanno dovuto inseguire tutta la partita arrancando di fronte alla forza fisica, tattica e mentale nettamente superiore dei bavaresi. A parte il gladiatorio Vidal, che è stato l’unico a offrire una prestazione degna di un quarto di finale di Champions League, i campioni d’Italia – a partire dal suo capitano, un insolitamente assai imperfetto Buffon – sono stati dominati dai panzer tedeschi.




Continuare nella descrizione di una disfatta (perché di questo si tratta, non bisogna mentire a se stessi), risulterebbe inutile. Forse, addirittura nocivo. Il colpo incassato nel freddo pungente della Baviera potrebbe avere ripercussioni anche sulle future prestazioni in Seria A. Fortunatamente, la Vecchia Signora ha ormai acquisito un margine abbastanza solido rispetto alle inseguitrici che sembra poter rassicurare l’ambiente bianconero. Ciò che importa, infatti, è altro. Nella storia, e pertanto anche nello sport, non esistono leggi universali prestabilite e inviolabili. La libertà umana ha mostrato, mostra e continuerà a mostrare una formidabile capacità di stupire.

L’andata di Champions League potrebbe pertanto rivelarsi un qualcosa in più di un completo fiasco. Così come la controversa scelta di Chamberlain permise alla Gran Bretagna di iniziare un processo di riorganizzazione delle sue forze armate, anche la lezione di calcio di Monaco subita dalla Juventus potrebbe rivelarsi utile al fine di contrastare efficacemente il Bayern durante la partita di ritorno. Molti commentatori, continuano ad affermare che il valore aggiunto dei bianconeri risiede in Antonio Conte. Questa suggestione, molto probabilmente, è ragionevole. L’allenatore pugliese, infatti, è (quasi) sempre riuscito a ottenere ben più del massimo dai propri giocatori. Non è detto che non vi riesca quasi miracolosamente anche il 10 aprile allo Juventus Stadium.



Ancora una volta, come insegna quella ‘maestra di vita’ che è la storia, a un assai troppo prudente Chamberlain potrebbe subentrare un arcigno e combattivo Winston Churchill, in grado di rinvigorire una squadra ancora con una dimensione prettamente nazionale e non pienamente europea. Anche se è quantomeno dubbia, proprio allo statista britannico è stata attribuita una frase che rappresenta una metafora della speranza che risiede nel cuore di ogni calciatore e di ogni tifoso bianconero: «mi piacciono gli italiani, vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra». A Torino sarà questo il livello della sfida. E, forse, ancora una volta risuonerà l’eco delle parole che Churchill pronunciò in un famoso discorso tenuto alla Camera dei Comuni il 18 giugno 1940. Negli spogliatoi, Conte dovrà spronare i suoi giocatori a stringersi al loro dovere e a comportarsi in modo che se il dominio della Juventus in campionato dovesse durare per un migliaio d’anni gli uomini (anche e soprattutto quelli di altre fedi calcistiche) diranno ancora: «questi furono i loro novanta minuti più belli». 

* Questo articolo è già apparso su Contropiede.net