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maggio 2003. Portaerei USS Abraham Lincoln. George W. Bush dichiara al mondo: «missione
compiuta». Dopo soltanto quaranta giorni dall’inizio delle operazioni, l’allora
presidente degli Stati Uniti sancisce la fine della guerra contro il regime di
Saddam Hussein.
A quasi dieci anni di distanza, quale
bilancio possiamo tirare della situazione in Iraq? Nel dicembre 2011, c’è stato
il definitivo passaggio di potere nelle mani delle autorità di Baghdad e il
ritiro delle truppe americane dal Paese. Tuttavia, non è possibile parlare di
una vittoria. Piuttosto, questa sembra la triste storia di un duplice fallimento:
non solo o soltanto americano (di cui, peraltro, si è già discusso
infinitamente), ma anche e soprattutto iracheno.
Quest’ultimo è principalmente un
fallimento delle sue élite politiche. In una nazione sorta dalla spartizione
anglo-francese del 1918, il tentativo di impiantare la democrazia è in stallo e
(forse) destinato a non veder mai una piena realizzazione. Tra i successi del
processo di democratizzazione dobbiamo tuttavia annoverare non solo un parziale
superamento del settarismo, ma anche una drastica riduzione delle violenze. Il
primo è dovuto all’affermazione elettorale di alleanze inter-etniche, in grado
di unire almeno parzialmente le tre componenti fondamentali del Paese: sunniti,
sciiti e curdi. La seconda è invece legata all’inclusione nel processo politico
dei sunniti, che hanno così tolto il loro sostegno ai miliziani stranieri di al
Qaida.
La vera sfida è però
rappresentata dalla deriva autoritaria del Primo Ministro Nuri al Maliki. Alla
guida di un governo in prorogatio (dato
che a due anni dalle elezioni non si è ancora trovata un’intesa tra le forze
politiche), il premier sciita ha progressivamente consolidato il proprio potere
sulle istituzioni dello Stato e sulle forze di sicurezza, al fine di combattere
i propri rivali. Tanto che, sia i sunniti sia i curdi, lo accusano di voler
instaurare una dittatura. L’incriminazione per terrorismo del vicepresidente
sunnita Tariq al Hashimi e la violazione dell’autonomia curda nel nord del
Paese sono soltanto i sintomi più evidenti di un malessere diffuso.
Mentre gli americani
sembrano in maniera pilatesca ormai lavarsene le mani, l’insofferenza verso
questa situazione cresce sia nella popolazione, sia nei gruppi politici
avversari degli sciiti. A ciò si deve aggiungere l’incapacità della classe
politica di rispondere ai bisogni della popolazione, oltre che il cinismo con
cui gli altri Paesi della regione giocano per i propri interessi con la
situazione irachena. Proprio nel momento in cui si è persa l’attenzione
mediatica nei suoi confronti, l’Iraq si sta pericolosamente avvitando su se
stesso. Le prospettive sul futuro non sono incoraggianti. E l’incubo di una
nuova dittatura – non più sunnita, ma sciita – non è così improbabile.
Suona pertanto
tristemente profetico il senso del lungo discorso che Don Fabrizio, il principe
di Salina, fa al cavaliere Chevalley, sceso in Sicilia per cercare la classe
dirigente del nuovo Regno d’Italia. Come ne Il
Gattopardo, così anche in Iraq è assai probabile che «tutto cambia
affinché nulla cambi».
Questo articolo è apparso su CQ140 l'11 aprile 2012 e sul Giornale del Popolo il 13 aprile 2012.
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