Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

martedì 27 novembre 2012

La schiena di Isla





In Mystery and Manners del 1969, mentre riflette sul ruolo e le prospettive della letteratura cattolica nel profondo Sud degli Stati Uniti, Flannery O’Connor osserva che il romanziere è un «realista delle distanze», ossia un «profeta». Nel caso del romanziere, aggiunge la grande scrittrice di Savannah. la profezia «non è questione di predire il futuro», bensì «consiste nel vedere le cose in tutta l’estensione del loro significato e quindi nel vedere in primo piano le cose lontane». Pertanto, il romanziere, in quanto «realista delle distanze», «non esita a distorcere le apparenze per mostrare una verità nascosta». E, conclude l’autrice di Wise Blood, «è questo tipo di realismo che si trova nei migliori esempi del grottesco».
            Ieri sera a San Siro, nel romanzo del calcio italiano è stata scritta una pagina che rappresenta un classico esempio del grottesco. La squadra dei ‘ladri’ è stata sconfitta a causa di un rigore inesistente. Tutta l’Italia calcistica non bianconera ha esultato di gioia. Una Juventus brutta e sottotono (che ha dato qualche segno di vita soltanto nel secondo tempo, senza però saper incidere sulla partita come al solito) si è dovuta arrendere a un Milan ben disposto in campo, ma anche assai mediocre nel gioco. Tuttavia, è proprio nell’episodio che ha coinvolto Mauricio Isla a essere racchiuso il senso più profondo della gara, forse dell’intero campionato. Proprio come al termine del racconto breve La schiena di Parker – quando il protagonista viene allontanato e violentemente pestato con una scopa dalla sua ‘devotissima’ (e iconoclasta) moglie, a causa del nuovo tatuaggio raffigurante il volto di Cristo che si è fatto dietro le spalle – i pochi centimetri che separano il braccio dal fianco destro del centrocampista cileno distorcono le apparenze e mostrano due verità nascoste.
            Da un lato, è evidente come risulti ormai stantia la polemica giacobina sul campionato falsato. Sarebbe utile e salutare per il calcio italiano uscire dal viluppo di un tale circolo vizioso. Dagli errori arbitrali – che c’erano, ci sono e sempre ci saranno – non può liberarci nessuno. A meno che i dirigenti di Fifa e Uefa decidano di introdurre la prova televisiva in campo (proprio come succede nel rugby). Ogni direttore di gara – in quanto essere umano – può sbagliare. La preparazione degli arbitri deve aiutare a ridurre il problema, ma non può certo risolverlo. D’altronde, anche la grande narrazione di ‘calciopoli’ si è rivelata nient’altro che una costruzione mediatica. Il sistema coinvolgeva tutti. Nessuno escluso (come ben dimostra la prescrizione del reato concessa all’Inter da Palazzi). Al calcio, in altre parole, non si addice il manicheismo.
            Dall’altro lato, colpisce in maniera positiva il comportamento sia del Milan, sia della Juventus. I rossoneri, attraverso il loro allenatore, hanno riconosciuto che il rigore era inesistente. I bianconeri – da Marotta a Buffon – non hanno aperto un’altra polemica sterile. I primi hanno portato a casa un successo utile, in un momento di forte difficoltà, mentre i secondi hanno ammesso una sconfitta figlia della cattiva prestazione più che del singolo episodio. Da ciò entrambe le squadre possono ripartire con realismo. Il Milan deve evitare la facile e illusoria euforia che la vittoria potrebbe generare. La strada è ancora lunga. E questo Allegri sembra averlo proprio capito. La Juve, invece, deve ancora una volta riconoscere che ogni partita è un racconto breve in sé nel romanzo del campionato. E, soprattutto, che la Champions League è un impegno che si fa sentire. Conte sa molto bene che l’umiltà e il duro lavoro sono il miglior antidoto per guarire dalla seconda sconfitta stagionale.
            Se l’episodio fosse avvenuto a parti invertite (come l’errore sul goal di Muntari dello scorso anno), oggi non saremmo qui a scrivere. Il calcio italiano sarebbe perso nelle polemiche giornalistiche e negli sfottò da bar dei tifosi. Per fortuna, non è andata così. Esattamente come la vita, il calcio è misterioso. E, qualche volta, può riservarci delle soprese ambigue. Oggi, possiamo evitare di guardare indietro, rivolgendo lo sguardo al prossimo turno. Infatti, a sorreggere il campionato non è l’occulta mano di nessuno, ma la provvidenziale schiena di Isla. 

Questo articolo è stato pubblicato su www.contropiede.net il 26 novembre 2012

lunedì 26 novembre 2012

Afghanistan solo andata, ma ritorneremo a casa insieme





Cinquantadue. È il numero dei soldati italiani caduti in Afghanistan. L’ultimo dei nostri ragazzi a morire in Asia Centrale è stato il caporal maggiore Tiziano Chierotti. Un giovane militare alla sua prima missione internazionale, colpito dai talebani vicino alla base del Secondo reggimento alpini a Bakwa, nella provincia di Farah. Lo scontro a fuoco è avvenuto il 25 ottobre nel villaggio di Siav.
Non è la prima volta che simili eventi producono polemiche politiche, analisi giornalistiche e inchieste giudiziarie. Niente di più, niente di meno. L’onda emotiva dell’opinione pubblica si esaurisce ben presto, lasciando spazio soltanto all’oblio (dei più) e al dolore (della famiglia e degli amici). Oggi, non è più così. Nelle librerie è uscito Afghanistan sola andata (Cairo editore, 253 pagine - 15 euro), in cui l’inviato di guerra Gian Micalessin racconta le storie dei soldati italiani caduti nel Paese degli aquiloni. È un volume commovente. Pagina dopo pagina l’autore ci fa conoscere non solo la vita quotidiana e gli ideali dei nostri soldati, ma anche il prezioso contributo dell’esercito italiano al fianco degli alleati nelle missioni internazionali. Ma il testo di Micalessin – che frequenta il Paese fin dal 1983 – è anche un viaggio nel tempo, nella cultura e nel paesaggio afghano.
Sono più di cinquanta le storie dei nostri ragazzi morti in questo ancestrale e affascinante Stato dell’Asia Centrale. Ma nell’impossibilità di raccontarle tutte, Micalessin ne raccoglie otto. Tutto inizia nel 1998, quando la «guerra al terrorismo» è ancora lontana (forse, nemmeno immaginabile). Il tenente colonnello Carmine Calò è a Kabul per conto delle Nazioni Unite. In un agguato, Carmine viene colpito da una pallottola di rimbalzo che ne devasta gli organi interni. Calò è – come ricorda sempre la moglie Maria – «il primo italiano in divisa a morire in Afghanistan».
Mogli, fidanzate, padri, madri, fratelli, colleghi e amici. Anche loro sono co-protagonisti del volume di Micalessin. Il loro dolore e i loro ricordi ci fanno conoscere l’onore, la professionalità e il coraggio dei nostri soldati. Dalle storie dei caduti, invece, emerge la complessità etnica e politica dell’Afghanistan, il carattere duro e aspro – proprio come il territorio che lo ospita – di un popolo indomabile, che inglesi, russi e americani non sono riusciti a piegare nel corso dei secoli. L’autore ci conduce per mano nella lotta quotidiana dei nostri genieri per la bonifica del territorio dagli Ied (Improvised Explosive Device), nei pericolosi pattugliamenti a bordo dei Lince, nella straniante quotidianità all’interno degli avamposti nelle valli sotto il controllo dei talebani. Fuori da qualsiasi forma di retorica, che spesso riempie le pagine dei quotidiani, Micalessin racconta l’esperienza di alcuni soldati approdati in un Paese lontano. Come quelle di Massimo e Matteo.




Sempre in viaggio verso villaggi sperduti, il tenente Massimo Ranzani è ufficiale responsabile del Cimic (Civic Military Cooperation). Dipendono da lui tutte le attività di sostegno ai civili. È un compito svolto con impegno e qualche rischio. Per conquistare i cuori degli afghani, Massimo entra nei villaggi senza giubbotto antiproiettile e senza elmetto. Nell’immaginario collettivo degli altri soldati, ricorda l’amico e collega Alessandro Dentico, è «una sorta di immortale». Preparato, intelligente, sempre tranquillo (anche nelle emergenze). Uno a cui «certe cose non possono succedere». Invece, il 26 febbraio 2011, Ranzani viene ucciso da uno Ied che investe il suo Lince durante una missione nella zona di Shindand.
A lasciare un segno indelebile è soprattutto la morte del primo caporal maggiore del 7° reggimento alpini Matteo Miotto. È il 31 dicembre 2010. L’Italia è impegnata a preparare cene, feste e veglioni nell’attesa del nuovo anno. A Buji nel Gulistan, invece, i talebani attaccano l’avamposto di Camp Snow. Il giovane militare di Thiene è tra i primi a rispondere al fuoco nemico. Viene colpito a morte – da un proiettile in ricaduta – durante lo scontro a fuoco. Ma la missione di Miotto non s’interrompe in Afghanistan (un Paese che lo affascinava, un popolo per cui provava profondo rispetto). Nel suo breve testamento, Matteo testimonia i valori per cui ha donato la propria vita. La vita di un ragazzo di ventiquattro anni che – come gli ripeteva sempre da bambino il nonno Antonio in dialetto veneto – «la guera, quela vera, non la vederè mai».
Alla vigilia della battaglia di La Drang in Vietnam, il 14 novembre 1965, il tenente colonnello dell’esercito americano Hal Moore fece una promessa ai suoi uomini: «Stiamo andando a combattere un nemico duro e determinato. Non vi posso promettere che vi riporterò tutti a casa vivi. Ma questo vi giuro... quando andremo in battaglia, sarò il primo a mettere piede sul campo, e sarò l’ultimo a lasciarlo. E non lasceremo indietro nessuno... vivo o morto. Noi ritorneremo a casa assieme». Richiudendo Afghanistan sola andata, dopo averne terminato l’ultima pagina, il lettore dovrà riconoscere che grazie a Micalessin i nostri soldati caduti non sono stati lasciati indietro, ma sono ritornati a casa.

Questo articolo è già stato pubblicato su www.ilsussidiario.net il 25 novembre 2012