Despair is the fate of the realists who know something about sin, but nothing about redemption.
Self-righteousness and irresponsibility is the fate of the idealists who know something about the good possibilities of life, but know nothing of our sinful corruption of it

(Reinhold Niebuhr)

lunedì 26 novembre 2012

Afghanistan solo andata, ma ritorneremo a casa insieme





Cinquantadue. È il numero dei soldati italiani caduti in Afghanistan. L’ultimo dei nostri ragazzi a morire in Asia Centrale è stato il caporal maggiore Tiziano Chierotti. Un giovane militare alla sua prima missione internazionale, colpito dai talebani vicino alla base del Secondo reggimento alpini a Bakwa, nella provincia di Farah. Lo scontro a fuoco è avvenuto il 25 ottobre nel villaggio di Siav.
Non è la prima volta che simili eventi producono polemiche politiche, analisi giornalistiche e inchieste giudiziarie. Niente di più, niente di meno. L’onda emotiva dell’opinione pubblica si esaurisce ben presto, lasciando spazio soltanto all’oblio (dei più) e al dolore (della famiglia e degli amici). Oggi, non è più così. Nelle librerie è uscito Afghanistan sola andata (Cairo editore, 253 pagine - 15 euro), in cui l’inviato di guerra Gian Micalessin racconta le storie dei soldati italiani caduti nel Paese degli aquiloni. È un volume commovente. Pagina dopo pagina l’autore ci fa conoscere non solo la vita quotidiana e gli ideali dei nostri soldati, ma anche il prezioso contributo dell’esercito italiano al fianco degli alleati nelle missioni internazionali. Ma il testo di Micalessin – che frequenta il Paese fin dal 1983 – è anche un viaggio nel tempo, nella cultura e nel paesaggio afghano.
Sono più di cinquanta le storie dei nostri ragazzi morti in questo ancestrale e affascinante Stato dell’Asia Centrale. Ma nell’impossibilità di raccontarle tutte, Micalessin ne raccoglie otto. Tutto inizia nel 1998, quando la «guerra al terrorismo» è ancora lontana (forse, nemmeno immaginabile). Il tenente colonnello Carmine Calò è a Kabul per conto delle Nazioni Unite. In un agguato, Carmine viene colpito da una pallottola di rimbalzo che ne devasta gli organi interni. Calò è – come ricorda sempre la moglie Maria – «il primo italiano in divisa a morire in Afghanistan».
Mogli, fidanzate, padri, madri, fratelli, colleghi e amici. Anche loro sono co-protagonisti del volume di Micalessin. Il loro dolore e i loro ricordi ci fanno conoscere l’onore, la professionalità e il coraggio dei nostri soldati. Dalle storie dei caduti, invece, emerge la complessità etnica e politica dell’Afghanistan, il carattere duro e aspro – proprio come il territorio che lo ospita – di un popolo indomabile, che inglesi, russi e americani non sono riusciti a piegare nel corso dei secoli. L’autore ci conduce per mano nella lotta quotidiana dei nostri genieri per la bonifica del territorio dagli Ied (Improvised Explosive Device), nei pericolosi pattugliamenti a bordo dei Lince, nella straniante quotidianità all’interno degli avamposti nelle valli sotto il controllo dei talebani. Fuori da qualsiasi forma di retorica, che spesso riempie le pagine dei quotidiani, Micalessin racconta l’esperienza di alcuni soldati approdati in un Paese lontano. Come quelle di Massimo e Matteo.




Sempre in viaggio verso villaggi sperduti, il tenente Massimo Ranzani è ufficiale responsabile del Cimic (Civic Military Cooperation). Dipendono da lui tutte le attività di sostegno ai civili. È un compito svolto con impegno e qualche rischio. Per conquistare i cuori degli afghani, Massimo entra nei villaggi senza giubbotto antiproiettile e senza elmetto. Nell’immaginario collettivo degli altri soldati, ricorda l’amico e collega Alessandro Dentico, è «una sorta di immortale». Preparato, intelligente, sempre tranquillo (anche nelle emergenze). Uno a cui «certe cose non possono succedere». Invece, il 26 febbraio 2011, Ranzani viene ucciso da uno Ied che investe il suo Lince durante una missione nella zona di Shindand.
A lasciare un segno indelebile è soprattutto la morte del primo caporal maggiore del 7° reggimento alpini Matteo Miotto. È il 31 dicembre 2010. L’Italia è impegnata a preparare cene, feste e veglioni nell’attesa del nuovo anno. A Buji nel Gulistan, invece, i talebani attaccano l’avamposto di Camp Snow. Il giovane militare di Thiene è tra i primi a rispondere al fuoco nemico. Viene colpito a morte – da un proiettile in ricaduta – durante lo scontro a fuoco. Ma la missione di Miotto non s’interrompe in Afghanistan (un Paese che lo affascinava, un popolo per cui provava profondo rispetto). Nel suo breve testamento, Matteo testimonia i valori per cui ha donato la propria vita. La vita di un ragazzo di ventiquattro anni che – come gli ripeteva sempre da bambino il nonno Antonio in dialetto veneto – «la guera, quela vera, non la vederè mai».
Alla vigilia della battaglia di La Drang in Vietnam, il 14 novembre 1965, il tenente colonnello dell’esercito americano Hal Moore fece una promessa ai suoi uomini: «Stiamo andando a combattere un nemico duro e determinato. Non vi posso promettere che vi riporterò tutti a casa vivi. Ma questo vi giuro... quando andremo in battaglia, sarò il primo a mettere piede sul campo, e sarò l’ultimo a lasciarlo. E non lasceremo indietro nessuno... vivo o morto. Noi ritorneremo a casa assieme». Richiudendo Afghanistan sola andata, dopo averne terminato l’ultima pagina, il lettore dovrà riconoscere che grazie a Micalessin i nostri soldati caduti non sono stati lasciati indietro, ma sono ritornati a casa.

Questo articolo è già stato pubblicato su www.ilsussidiario.net il 25 novembre 2012

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