Cinquantadue. È il numero dei soldati
italiani caduti in Afghanistan. L’ultimo dei nostri ragazzi a morire in Asia
Centrale è stato il caporal maggiore Tiziano Chierotti. Un giovane militare
alla sua prima missione internazionale, colpito dai talebani vicino alla base
del Secondo reggimento alpini a Bakwa, nella provincia di Farah. Lo scontro a
fuoco è avvenuto il 25 ottobre nel villaggio di Siav.
Non è la prima
volta che simili eventi producono polemiche politiche, analisi giornalistiche e
inchieste giudiziarie. Niente di più, niente di meno. L’onda emotiva
dell’opinione pubblica si esaurisce ben presto, lasciando spazio soltanto
all’oblio (dei più) e al dolore (della famiglia e degli amici). Oggi, non è più
così. Nelle librerie è uscito Afghanistan
sola andata (Cairo editore, 253 pagine - 15 euro), in cui l’inviato di
guerra Gian Micalessin racconta le storie dei soldati italiani caduti nel Paese
degli aquiloni. È un volume commovente. Pagina dopo pagina l’autore ci fa
conoscere non solo la vita quotidiana e gli ideali dei nostri soldati, ma anche
il prezioso contributo dell’esercito italiano al fianco degli alleati nelle
missioni internazionali. Ma il testo di Micalessin – che frequenta il Paese fin
dal 1983 – è anche un viaggio nel tempo, nella cultura e nel paesaggio afghano.
Sono più di
cinquanta le storie dei nostri ragazzi morti in questo ancestrale e
affascinante Stato dell’Asia Centrale. Ma nell’impossibilità di raccontarle tutte,
Micalessin ne raccoglie otto. Tutto inizia nel 1998, quando la «guerra al
terrorismo» è ancora lontana (forse, nemmeno immaginabile). Il tenente
colonnello Carmine Calò è a Kabul per conto delle Nazioni Unite. In un agguato,
Carmine viene colpito da una pallottola di rimbalzo che ne devasta gli organi
interni. Calò è – come ricorda sempre la moglie Maria – «il primo italiano in
divisa a morire in Afghanistan».
Mogli,
fidanzate, padri, madri, fratelli, colleghi e amici. Anche loro sono
co-protagonisti del volume di Micalessin. Il loro dolore e i loro ricordi ci
fanno conoscere l’onore, la professionalità e il coraggio dei nostri soldati. Dalle
storie dei caduti, invece, emerge la complessità etnica e politica
dell’Afghanistan, il carattere duro e aspro – proprio come il territorio che lo
ospita – di un popolo indomabile, che inglesi, russi e americani non sono
riusciti a piegare nel corso dei secoli. L’autore ci conduce per mano nella
lotta quotidiana dei nostri genieri per la bonifica del territorio dagli Ied
(Improvised Explosive Device), nei pericolosi pattugliamenti a bordo dei Lince,
nella straniante quotidianità all’interno degli avamposti nelle valli sotto il
controllo dei talebani. Fuori da qualsiasi forma di retorica, che spesso
riempie le pagine dei quotidiani, Micalessin racconta l’esperienza di alcuni
soldati approdati in un Paese lontano. Come quelle di Massimo e Matteo.
Sempre in
viaggio verso villaggi sperduti, il tenente Massimo Ranzani è ufficiale
responsabile del Cimic (Civic Military Cooperation). Dipendono da lui tutte le
attività di sostegno ai civili. È un compito svolto con impegno e qualche
rischio. Per conquistare i cuori degli afghani, Massimo entra nei villaggi
senza giubbotto antiproiettile e senza elmetto. Nell’immaginario collettivo
degli altri soldati, ricorda l’amico e collega Alessandro Dentico, è «una sorta
di immortale». Preparato, intelligente, sempre tranquillo (anche nelle
emergenze). Uno a cui «certe cose non possono succedere». Invece, il 26
febbraio 2011, Ranzani viene ucciso da uno Ied che investe il suo Lince durante
una missione nella zona di Shindand.
A lasciare un
segno indelebile è soprattutto la morte del primo caporal maggiore del 7°
reggimento alpini Matteo Miotto. È il 31 dicembre 2010. L’Italia è impegnata a
preparare cene, feste e veglioni nell’attesa del nuovo anno. A Buji nel
Gulistan, invece, i talebani attaccano l’avamposto di Camp Snow. Il giovane
militare di Thiene è tra i primi a rispondere al fuoco nemico. Viene colpito a
morte – da un proiettile in ricaduta – durante lo scontro a fuoco. Ma la
missione di Miotto non s’interrompe in Afghanistan (un Paese che lo affascinava,
un popolo per cui provava profondo rispetto). Nel suo breve testamento, Matteo
testimonia i valori per cui ha donato la propria vita. La vita di un ragazzo di
ventiquattro anni che – come gli ripeteva sempre da bambino il nonno Antonio in
dialetto veneto – «la guera, quela vera,
non la vederè mai».
Alla vigilia della
battaglia di La Drang in Vietnam, il 14 novembre 1965, il tenente colonnello
dell’esercito americano Hal Moore fece una promessa ai suoi uomini: «Stiamo
andando a combattere un nemico duro e determinato. Non vi posso promettere che
vi riporterò tutti a casa vivi. Ma questo vi giuro... quando andremo in
battaglia, sarò il primo a mettere piede sul campo, e sarò l’ultimo a
lasciarlo. E non lasceremo indietro nessuno... vivo o morto. Noi ritorneremo a
casa assieme». Richiudendo Afghanistan
sola andata, dopo averne terminato l’ultima pagina, il lettore dovrà riconoscere
che grazie a Micalessin i nostri soldati caduti non sono stati lasciati
indietro, ma sono ritornati a casa.
Questo articolo è già stato pubblicato su www.ilsussidiario.net il 25 novembre 2012
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