* Questa recensione è già apparsa sul sito dell'Associazione Globus et Locus
Molto spesso la fantascienza è stata considerata soltanto come
un modo frivolo di fuggire dalla realtà, attraverso la costruzione di un
qualche immaginifico e visionario futuro. Assai meno frequentemente è stata riconosciuta
la capacità critica di alcuni grandi autori di questo genere letterario di
indagare le trasformazioni in atto nel sistema internazionale. Sotto la scorza
più superficiale nella narrativa, infatti, vari racconti utopici o distopici
contengono profondi giudizi – non di rado abilmente celati – su politica,
economia, società e storia.
Nelle pagine del recente L’età ibrida. Il potere della tecnologia
nella competizione globale (Codice edizioni, Torino 2013, pp. 115, euro
11,90), Ayesha e Parag Khanna offrono al lettore una serie di scenari possibili
dell’incombente domani, senza tuttavia ricorrere alla ‘finzione’ del romanzo. Riprendendo
l’esperienza di un’altra famosa coppia di coniugi, i futurologi Alvin e Heidi Toffler,
i due autori riflettono sull’incessante evoluzione della Technik e sulla sua sempre più dirompente ibridazione con
l’esistenza dell’uomo. Il rapporto tra l’avanzamento della tecnologia e la vita
umana, che si fa sempre più liminare, sembra essere destinato a trasformare
radicalmente e irrimediabilmente il destino della singola persona e quello
delle comunità politiche organizzate.
L’«età
ibrida», osservano i coniugi Khanna, è «una nuova epoca sociotecnologica
che emerge mano a mano che le tecnologie si fondono tra di loro e gli esseri
umani con queste» (p. 6). Un’epoca nella quale «il nostro rapporto con la
tecnologia sta oltrepassando il livello puramente strumentale per entrare nella
sfera esistenziale»: ossia un’epoca dove «la natura umana cessa di essere una
verità distinta e immutabile» e «la tecnologia è diventata pervasiva come
l’aria che respiriamo» (p. 8, 14).
Accanto a una grande quantità di esempi
concreti di come l’innovazione tecnologica modifica (o sta inesorabilmente per
modificare) innumerevoli campi della realtà, gli autori hanno l’indiscusso
merito di mantenere una posizione speculativa che rimane ancorata ai mutamenti (magari,
ancora sotterranei) in corso nel mondo glocale. Particolarmente suggestive sono
le riflessioni sui nuovi assetti geotecnologici,
che andranno (forse) a sostituire quelli geopolitici e geoeconomici nella
competizione per la supremazia internazionale, oltre che la sempre più forte
tendenza – ben descritta anche da Charles A. Kupchan e Moisés Naín – alla
diffusione ed erosione del potere degli Stati. Istituzioni, queste ultime, che
– secondo gli autori de L’età ibrida
– andranno ad essere nel lungo periodo soppiantate da imponenti smart cities, megalopoli e città-stato,
in un ritorno non tanto e non solo al Medioevo, ma quanto e soprattutto al
mondo delle polis della Grecia
classica.
Ma l’influsso della tecnica sulla vita
dell’uomo non viene analizzato soltanto nei confronti delle dinamiche
politiche. Ayesha e Parag Khanna ne sottolineano anche l’impatto ‘generativo’ sulle
transizioni finanziarie e sulla produzione economica, su sistemi sanitari,
educativi e di welfare che, nella
loro dimensione statale, risultano già oggi insostenibili.
Di fronte alla possibilità che si
tratteggino all’orizzonte scenari persino apocalittici, gli autori di questo
agile libretto riprendono – senza, ovviamente, la precisione filosofica – il
solco della riflessione intorno alla tecnica che ha segnato l’inizio e la metà
del Novecento. Ma intersecano anche gran parte dell’odierno dibattito relativo
ad alcune questioni centrali della biopolitica. «Siamo pronti» – affermano,
infatti, i Khanna – «a gettarci su qualunque tecnologia riteniamo arricchisca,
prolunghi o faciliti la nostra vita, ma raramente leggiamo la scritta in corpo
minore che ci dice cosa dobbiamo dare in cambio» (p. 98). Per molti versi, quindi,
al termine della lettura de L’età ibrida
– che guarda, con un misto di speranza e ansietà, a ciò che di odierno c’è nel
domani – torna alla mente l’esortazione che Albert Camus fa pronunciare al
dottor Rieux nel celebre dialogo con Tarrou, contenuto in La peste del 1947: «essere
un uomo, questo mi interessa». E ciò vale ancora di più nei confronti
dell’incipiente avanzare della tecnica.